Dopo la vittoria del Turner Prize nel 1998 e la nomina di
rappresentante al Padiglione Britannico della 50. Biennale di Venezia, nel
2003, Chris Ofili
(Manchester, 1968; vive a Trinidad) arriva alla Tate Britain di Londra per la
seconda volta in tre anni.
Ripercorrendo velocemente la sua carriera, ricordiamo che
quest’artista ha studiato alla Chelsea School e poi al Royal College di Londra,
dove Charles Saatchi l’ha scelto ed eletto tra i membri del gruppo degli Young
British Artists. Ofili esponeva alla celebre Sensation del 1997, mostra che aveva in
qualche modo preannunciato i terribili e controversi destini del mercato
dell’arte contemporanea, così ben spiegati e sintetizzati da Sarah Thornton nel
libro Il giro del mondo dell’arte in sette giorni.
La fortuna d’un artista sembra preclusa o al contrario
agevolata, indubbiamente
compromessa, da un certo numero di requisiti senza i quali, a quanto pare, non
si può aspirare al successo, c
di un invidiabile pedigree: una buona scuola, la città e gli amici giusti, un
premio importante e almeno una Biennale non sono sufficienti, ma sono senza
dubbio indispensabili.
Per i fortunati che riescono a sentire il profumo del
successo, è facile cadere nella tentazione di continuare a produrre le stesse
opere che sono state apprezzate: si tratta di una scelta che spesso riduce il
lavoro a una sorta di logo riconoscitivo a cui associare il proprio nome. In
altri casi si verifica una sorta di paresi, di ansia da prestazione che impedisce
all’artista celebrato di far evolvere la sua ricerca e che lo costringe a
ripiegare su se stesso o, peggio, su ruoli attigui ma che non gli competono.
Ci sembra invece interessante notare come Chris Ofili sia
riuscito a rinnovarsi e a crescere liberamente a dispetto del sistema
pericolosissimo nel quale si trova. Aveva già esposto alla Tate Britain nel
2007 in una mostra intitolata The Upper Room, in cui si esponevano le sue
scimmie di diversi colori (1999-2002) appositamente realizzate per il museo e
allestite in collaborazione con l’architetto David Adjaye.
Si tratta delle stesse che ritroviamo quest’anno, sempre
alla Tate Britain, ma in una nuova mostra, finanziata da Louis Vuitton, che ha
un percorso di taglio antologico: si parte dalle opere degli anni ’90, sessuali
e provocatoriamente “firmate” col letame, si passa attraverso le scimmie per
arrivare (finalmente) alle ultime sale, dove l’artista presenta gli ultimi
lavori ispirati alle tradizioni e alla vita caraibica di Trinidad.
Queste opere valgono la visita alla mostra e anche la
nuova celebrazione di questo artista, meritata per aver saputo rinnovarsi e
aver trovato espressioni formali nuove e mature. Le dimensioni monumentali su
cui si stagliano le immagini, che emergono da fondi piatti, sono interessate da
un inedito uso del monocromo. Ne esce una grande pittura, che rinnova e
sintetizza riferimenti eterogenei che spaziano dall’opera di Francisco Goya a quella di William Blake, fino a Henri Rousseau.
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