Shooting Back è un bel titolo per una mostra il cui contenuto consiste in uno sguardo all’indietro, qualcosa come una visione retrospettiva di alcuni artisti verso etnografie e geografie delle loro origini, origini per lo più est o extra europee. E soprattutto è una complessa e densa esposizione, con molte potenzialità. In effetti, seppure con una dimensione imparagonabile, la mostra si affianca benissimo agli “intenti” dei due maggiori eventi internazionali della scorsa estate, la 52esima Biennale di Venezia e la documenta 12 di Kassel, come a volerne sperimentare una sintesi ideologica. Ovvero, della prima mette in gioco i presupposti estetici (
pensa con i sensi e senti con la mente) e della seconda gli innesti antropologici (arte come
medium universale delle differenti tradizioni locali), per poi assumere una propria specificità.
Shooting Back trova nel mezzo cinematografico -in video o in proiezione- il dispositivo “ermeneutico” di gran lunga preferito dagli artisti. E la ragione è evidente: sta nella duttilità e nella (apparente) immediatezza. Tuttavia, le condizioni di possibilità offerte dal mezzo da sole non bastano. Ovvio, la tradizione è per definizione il luogo delle eredità, delle identità e della memoria tramandata, dove però il tempo e la storia lavorano ad alterare le origini, a confondere le tracce più retrostanti allo sguardo. L’arte sa bene intervenire su queste fratture di senso; ma può, al tempo stesso, essere l’analogo di un’archeologia del sapere? Istanza legittima ma a rischio di aporia. Da
Shooting Back emergono realtà restituite sotto una prospettiva sinuosa, ambigua, molto connotata dal mezzo espressivo. Non poteva essere altrimenti.
Complessivamente, diciassette presenze artistiche. Uno dei pezzi di maggior impatto è
Lingchi (2002) di
Chen Chien-Jen, un film di 25 minuti proiettato su uno schermo grande, ispirato al soggetto di una foto di inizio Novecento e di alcune cartoline postali usate come attrattiva folcloristica cinese per i turisti di allora. Con meticolosità stilistica maniacale, con le giuste sfumature di un bianconero d’epoca e con una lentezza esasperata, l’artista propone il rituale pubblico di una crudele tortura inferta sul corpo nudo di un uomo, mentre la comunità locale vi si accalca, presa più dalla curiosità che da pietà o disgusto. Ma l’ossessione voyeuristica smaschera la finzione della scena solo nel momento in cui la prospettiva si inverte ed è la carne viva e sanguinante del giovane a osservare la folla, mentre una pioggia battente lava il corpo del torturato e inzuppa gli abiti dei presenti.
Goffa e patetica è la sequenza di una danza del ventre in un ambiente vuoto e in assoluta penombra in cui Kutlug Ataman mette in scena, quasi in forma punitiva, un risibile cerimoniale erotico interpretato da un uomo con tutti gli orpelli del caso. Il libanese
Akram Zaatari reperisce da vecchi archivi fotografici numerosi ritratti eseguiti in studio; se alcune pose simulano effusioni amorose tra persone dello stesso sesso, in quella finzione si celano in realtà messaggi diretti a terzi in una cultura tradizionalmente avversa alla promiscuità pubblica. Nel nesso traumatico con le proprie origini,
Brad Kahlhamer evoca le tradizioni dei
nativi americani attraverso uno spettrale espressionismo figurativo.
A offrire uno spessore speculativo al tema generale è
Ai Weiwei, che presenta una serie di vasi in terracotta di epoca neolitica. L’artista è intervenuto ricoprendo quasi totalmente ogni singolo oggetto con un colore differente, componendo un insieme esteticamente gradevole. Degli oggetti originali resta la forma e traspaiono sprazzi dell’antico colore e delle primitive decorazioni. Il loro stato presente, dunque, è una condizione storica che dipende tutta, e solo, da punti di vista interpretativi.