Prima di dare avvio ai festeggiamenti per i cinquant’anni
de
La Dolce Vita (1960), l’esposizione
La Grande Parade diventa l’occasione per interrogarsi
sull’attualità della produzione di
Federico Fellini (Rimini, 1920 – Roma, 1993).
Organizzare una retrospettiva sull’opera di un cineasta,
oltre al reperimento delle fonti e alla ricostruzione del processo artistico,
significa anche, attraverso una precisa scelta espositiva, imporre un punto di
vista sull’autore. Privilegiare ad esempio la documentazione intorno alla
filmografia – intesa come materiale prezioso – significa optare per una
soluzione allestitiva di tipo archivistico o enciclopedico. Installare, invece,
una sorta di cinematografo con scenografie effimere, che ricalcano
plasticamente l’iconografia del regista, predispone il visitatore a una mostra
di tipo spettacolare. Esposizione, cioè, spettacolo di se stessa.
Il risultato al Jeu de Paume è infatti un insieme di
strati che combina elementi filmici, fotografie e locandine originali in più
ambienti visivi dal tono pseudo-circense.
Fellini è così sviscerato
semiologicamente in tutti i possibili segni che, ovviamente rinviando ad altro,
costruiscono una nuova griglia di lettura ed esegesi dell’intera produzione.
Un’immensa gigantografia de
La Dolce Vita accoglie il visitatore
proiettandolo immediatamente nel cuore dell’universo felliniano. Un mondo
scandito – come le sale tematiche in mostra – da “cultura popolare”, “le
donne”, “il circo” e “l’invenzione biografica”. È possibile dunque ripercorrere
le suggestioni nascoste dietro ogni suo capolavoro, da
Lo sceicco bianco (1952) a
La voce della Luna (1990), e indagare la costruzione
delle immagini d’ogni film, che sono il profondo riflesso della sua biografia.
Formatosi come caricaturista, Fellini in giovinezza si
guadagnava da vivere facendo ritratti ai soldati in congedo. E lo stesso
sguardo acuto e affinato nel saper congelare
frame della realtà perdura in tutta la
sua produzione. Tant’è che il regista ha ritratto, in decine di lungometraggi,
una piccola folla di personaggi memorabili, definendo se stesso “
un
artigiano che non ha niente da dire, ma che sa come dirlo“.
In occasione dell’agiografia espositiva di Fellini –
quando “felliniano” è aggettivo che consacra un mito – si può parlare anche di
“vezzoliano”. Almeno per i miti hollywoodiani che
Francesco Vezzoli (Brescia, 1971; vive a Milano)
porta in scena in
Right You Are (If You Think You Are) À Chacun Sa Vérité.
Appendice della
Grande Parade, purtroppo con orari limitati di
proiezione, il video indaga lo stato paradossale d’illusione e finzione nella
percezione della realtà. Il lavoro, traendo spunto da
A ciascuno il suo di Pirandello, è la versione
video di una performance realizzata nel 2007 al Guggenheim di New York.
Secondo la prassi di Vezzoli, cioè con un cast da Nuova
Dolce Vita (Cate Blanchett, Ellen Burstyn, Natalie Portman), la parabola
pirandelliana dell’impossibilità della verità oggettiva si trasforma in una
meditazione sull’ossessione per la fama e per la vita privata delle celebrità.
Dolce e amara.
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fellini come VEZZOLI ma vaff.....lo..... scusate, è il reflusso