La Tate Modern ha scelto la provocazione.
Pop Life: Art
in a Material World ha fatto parlare di sé ancor prima dell’apertura al pubblico, con il ritiro
dello scandaloso nudo di Brooke Shields a dieci anni, e i cataloghi ristampati
escludendo l’immagine di taglio decisamente pedo-pornografico scelta da
Richard
Prince per la sua
installazione.
Sulla stampa inglese la notizia ha avuto un’eco enorme e
ha costituito un traino ulteriore per questa collettiva, che non risulta
minimamente danneggiata nel suo concept dall’illustre esclusione e al
visitatore appare fluida e ben congegnata.
La sala iniziale apre in tipico “stile Tate” con il
confronto tra il padre della Pop Art
Andy Warhol e gli ultimi alfieri moderni del
movimento,
Takashi Murakami e Jeff
Koons. Warhol è il maestro, l’iniziatore, colui che fuori
da ogni ipocrisia amava affermare che “
un buon business è la migliore delle
arti”.
Questa dichiarazione è una delle linee portanti della
mostra, che svela in modo inequivocabile il lato più commerciale di artisti
come
Keith Haring,
del quale è stato
fedelmente riprodotto il
Pop Shop newyorchese, con tanto di vendita al dettaglio di
merchandising,
fino alla generazione degli Young British Artists, con la
documentazione del negozio che
Tracy Emin e
Sarah Lucas aprirono a Londra per vendere le loro creazioni.
Di
Jeff Koons è portato in risalto il controverso periodo di
Made in
Heaven, con la
ricostruzione dell’installazione proposta alla Biennale di Venezia del 1990. La
sala è vietata ai minori di diciotto anni, come anche lo spazio dedicato
all’artista-performer londinese
Cosey Fanni Tutti, che affianca la provocazione
pornosoft alla ribellione punk. Il riferimento al sesso è palese ma meno
letterale anche nel video con Kirsten Dunst,
Akihabara Majokko Princess, che richiama alla sessualità
esplicita delle cosplayer che popolano il quartiere giapponese di Akihabara.
Sembra che i curatori abbiano voluto portare nuovamente
allo scoperto il lato più frivolo degli anni ‘80. Richiami al denaro, all’oro e
al lusso sono spesso presenti durante tutto il percorso della mostra.
Damien
Hirst è
rappresentato dalle ultime opere andate all’asta nel 2008 da Sotheby’s, tutte
riedizioni di suoi celebri lavori, come le teche di
Pharmacy o i quadri con ali di farfalla,
ma con l’aggiunta d’oro e pietre preziose. C’è anche la già famosa performance
dei gemelli identici, seduti sotto due piccole tele di
dot painting, sempre con fondo oro.
Tutta la Pop Art è presentata nella sua veste di furba
osservatrice del mercato, ma a uno sguardo attento non risulta solamente
splendente e spensierata.
Pop Life: Art in a Material World pone un’interessante riflessione
sull’autopromozione degli artisti iniziata con Warhol, proseguita con Haring e
Martin
Kippenberger, con
la sua
Candidatura per una retrospettiva.
Cercando di andare oltre i lustrini e le polemiche, il
merito maggiore di questa mostra sta nel proporre una volta di più un nuovo
spunto di riflessione sulla domanda: è stato Warhol a usare il mercato o è
stato il mercato a usare Warhol?
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Provocatoria e scandalosa?
Banale e in cerca di un pubblico da luna park, questo mi è sembrata.
Una mostra che può avere il senso di far conoscere alcuni nomi a chi non ha mai visto nient'altro, ma certamente non qualcosa con cui la Tate possa affermare identità e audacia.
Le opere-gioiello di Hirst, le opere-gioiello di Murakami, le magliette di Haring da comprare in uno shop, le pareti d'oro e la muscia alta.
Sembra una passeggiata per Ginza, o un'introduzione al Pop per bambini con bisogno di stimoli.