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10
aprile 2009
fino al 17.V.2009 Antoon van Dyck London, Tate Britain
around
Dipinge re, regine e aristocratici sullo sfondo di tramonti tizianeschi. Immortala la transitoria bellezza di un’epoca che sta per esser distrutta dalla Guerra civile. In mostra alla Tate Britain, la seduzione inquietante di van Dyck...
Adolescente prodigio che apprende presto a emulare il barocco fastoso del suo maestro Rubens, ha solo ventun anni Antoon van Dyck (Anversa, 1599 – Londra, 1641) quando si reca per la prima volta a Londra. Che lascia per l’Italia nel 1621, dopo sei mesi trascorsi alla corte di Giacomo I. Sei mesi sufficienti, tuttavia, a cambiare il volto dell’arte britannica dei secoli a venire.
In Italia studia gli antichi maestri, e in particolare quel Tiziano che lo aveva folgorato quando l’aveva visto per la prima volta nella collezione di Thomas Howard, conte di Arundel. Da Genova a Palermo, van Dyck viaggia di continuo, irrequieto per natura. Torna nelle Fiandre solo nel 1627. Dove lo raggiunge l’invito di Carlo I.
E qui inizia Van Dyck and Britain, la nuova mostra alla Tate Britain: otto sale e centotrenta opere, a esplorare l’impatto del fiammingo sulla ritrattistica britannica dei successivi tre secoli. Arrivato a Londra nella primavera del 1632, preceduto dalla sua fama di “grande” guadagnata alle corti europee, van Dyck è abituato a dipingerli, i “grandi”. E, per niente intimidito dalla loro compagnia, si adatta con grazia al nuovo stile di vita, alla rendita annuale di duecento sterline e alla residenza di Blackfriars, sul Tamigi.
Sbarcato in una terra senza una vera scuola pittorica locale, governata da un re che ama l’arte, van Dyck sa che deve mutare il suo stile per adattarsi alle necessità del suo nuovo patrono. Abbandonati i toni scuri della sua precedente maniera fiamminga, schiarisce la tavolozza, adottando quella gamma ariosa di colori leggeri necessari a riprodurre l’argentea luce inglese e gli sgargianti costumi di moda alla corte degli Stuart. E Carlo I, riconosciuto in van Dyck l’erede del suo amato Tiziano, lo nomina cavaliere.
Davanti alla barocca teatralità di van Dyck – teatralità dal colore denso e dalle pennellate veloci, quasi compendiarie -, le sobrie immagini prodotte per la corte inglese dai predecessori fiamminghi appaiono rigide e ieratiche. Gli anni ’30 del Seicento sono anni difficili per la monarchia.
I tentativi di Carlo I di accrescere il suo potere personale e la sua politica religiosa gli hanno alienato sia il Parlamento che i Puritani. Il re sa che deve rafforzare la sua vacillante immagine pubblica. E van Dyck lo accontenta con composizioni immense come The Great Peece (1632) e il Ritratto di Carlo I con M. de Saint-Antonie suo maestro di equitazione (1633), vere e proprie operazioni di grande teatro politico. Che lasciano poco spazio all’intimità.
D’altronde, non è la profondità d’animo che la corte inglese richiede a van Dyck, ma una grandiosa rappresentazione di potere e ricchezza. La stessa voluta dagli aristocratici che gli commissionano i ritratti. E van Dyck – a cui non è richiesto di essere realista per contratto – li accontenta, dipingendoli sullo sfondo di tendaggi e colonne, facendoli apparire ciò che desiderano: belli, ricchi e, soprattutto, potenti.
Ma la grandezza di van Dyck sta anche nel saper condensare il sapore di un’intera epoca in un’immagine. Come quella dei giovani cugini del re caduti nella Guerra civile, Lord John e Lord Bernard Stuart (1638), raffinati damerini in abiti di seta, ignari della tragedia che li aspetta.
La morte coglie van Dyck nel 1641 nella sua residenza di Blackfriars, a soli quarantadue anni. Nel 1649, Carlo I è condannato a morte. Ma la sua memoria sopravvive nel linguaggio pittorico creato per lui. Un linguaggio adottato da artisti del Commonwealth come Robert Walker. Che non esita a riproporre le teatrali composizioni di van Dyck proprio nel ritratto di colui che aveva voluto che “il sanguinario Carlo Stuart” fosse giustiziato: Oliver Cromwell.
In Italia studia gli antichi maestri, e in particolare quel Tiziano che lo aveva folgorato quando l’aveva visto per la prima volta nella collezione di Thomas Howard, conte di Arundel. Da Genova a Palermo, van Dyck viaggia di continuo, irrequieto per natura. Torna nelle Fiandre solo nel 1627. Dove lo raggiunge l’invito di Carlo I.
E qui inizia Van Dyck and Britain, la nuova mostra alla Tate Britain: otto sale e centotrenta opere, a esplorare l’impatto del fiammingo sulla ritrattistica britannica dei successivi tre secoli. Arrivato a Londra nella primavera del 1632, preceduto dalla sua fama di “grande” guadagnata alle corti europee, van Dyck è abituato a dipingerli, i “grandi”. E, per niente intimidito dalla loro compagnia, si adatta con grazia al nuovo stile di vita, alla rendita annuale di duecento sterline e alla residenza di Blackfriars, sul Tamigi.
Sbarcato in una terra senza una vera scuola pittorica locale, governata da un re che ama l’arte, van Dyck sa che deve mutare il suo stile per adattarsi alle necessità del suo nuovo patrono. Abbandonati i toni scuri della sua precedente maniera fiamminga, schiarisce la tavolozza, adottando quella gamma ariosa di colori leggeri necessari a riprodurre l’argentea luce inglese e gli sgargianti costumi di moda alla corte degli Stuart. E Carlo I, riconosciuto in van Dyck l’erede del suo amato Tiziano, lo nomina cavaliere.
Davanti alla barocca teatralità di van Dyck – teatralità dal colore denso e dalle pennellate veloci, quasi compendiarie -, le sobrie immagini prodotte per la corte inglese dai predecessori fiamminghi appaiono rigide e ieratiche. Gli anni ’30 del Seicento sono anni difficili per la monarchia.
I tentativi di Carlo I di accrescere il suo potere personale e la sua politica religiosa gli hanno alienato sia il Parlamento che i Puritani. Il re sa che deve rafforzare la sua vacillante immagine pubblica. E van Dyck lo accontenta con composizioni immense come The Great Peece (1632) e il Ritratto di Carlo I con M. de Saint-Antonie suo maestro di equitazione (1633), vere e proprie operazioni di grande teatro politico. Che lasciano poco spazio all’intimità.
D’altronde, non è la profondità d’animo che la corte inglese richiede a van Dyck, ma una grandiosa rappresentazione di potere e ricchezza. La stessa voluta dagli aristocratici che gli commissionano i ritratti. E van Dyck – a cui non è richiesto di essere realista per contratto – li accontenta, dipingendoli sullo sfondo di tendaggi e colonne, facendoli apparire ciò che desiderano: belli, ricchi e, soprattutto, potenti.
Ma la grandezza di van Dyck sta anche nel saper condensare il sapore di un’intera epoca in un’immagine. Come quella dei giovani cugini del re caduti nella Guerra civile, Lord John e Lord Bernard Stuart (1638), raffinati damerini in abiti di seta, ignari della tragedia che li aspetta.
La morte coglie van Dyck nel 1641 nella sua residenza di Blackfriars, a soli quarantadue anni. Nel 1649, Carlo I è condannato a morte. Ma la sua memoria sopravvive nel linguaggio pittorico creato per lui. Un linguaggio adottato da artisti del Commonwealth come Robert Walker. Che non esita a riproporre le teatrali composizioni di van Dyck proprio nel ritratto di colui che aveva voluto che “il sanguinario Carlo Stuart” fosse giustiziato: Oliver Cromwell.
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a cura di Karen Hearn
Tate Britain
Millbank – SW1P 4RG London
Orario: tutti i giorni ore 10-17.50 (ultimo ingresso ore 17); fino alle 22 il primo venerdì del mese
Ingresso: intero £ £12,20; ridotto £11,30/10,30
Catalogo £ 24,99
Info: tel. +44 02078878888; visiting.britain@tate.org.uk; www.tate.org.uk
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