Invece di concentrarsi su una scuola fotografica –indipendentemente dal criterio d’identificazione (tecnico, geografico, storico)– la selezione degli artisti resta eterogenea, anche per quanto riguarda l’appartenenza generazionale. È il caso dei due maestri in mostra, Robert Adams (Usa, 1937) e Boris Mikhailov (Ucraina, 1938), esposti senza alcun tentativo di collocare gli artisti più giovani in una discendenza più o meno imposta. Di Adams, tra l’altro, è stata scelta una serie poco conosciuta di vedute notturne estive, lontana da quella vita urbana che non ha mai smesso di sviscerare.
Il crepuscolo in questione viene inteso, innanzitutto, come una sfida tecnica posta al mezzo fotografico. Si tratta infatti di un momento fugace in cui le luci cambiano velocemente, le sfumature cromatiche si susseguono una dopo l’altra, i contrasti e i contorni si fanno meno netti e le ombre allungano la loro mano sulle figure. Un momento di sospensione tra lo smorzarsi della luce naturale e i primi bagliori di quella elettrica, come trattano, con sensibilità diverse, Chrystel Lebas e Bill Henson. Ma, com’era prevedibile, questo “bagliore diffuso” si trasforma in una tonalità soprattutto psicologica. Il crepuscolo permette, ad esempio, d’isolare un frammento narrativo e di renderlo disponibile all’interpretazione dello spettatore. È il caso di Gregory Crewdson, che usa come set anonimi sobborghi americani, o del lavoro, di minore impatto visivo, di Liang Yue sulle metropoli asiatiche e sul senso di malinconia che le pervade.
Efficace, al contrario, è l’opera di Mikhailov: il blu che domina i suoi scatti presi nella città natale di Kharkov (Ucraina) diventa il colore della memoria infantile, costellata da sirene e bombardamenti sotto un cielo blu oltremare. Costatando che esistono poche testimonianze visive della vita in Ucraina durante il Secondo conflitto mondiale, l’artista si è incaricato di costituire un corpus fittizio di documenti fotografici che, grazie alla loro tonalità, danno l’impressione di esser sopravvissuti a chissà quale cataclisma.
Il crepuscolo offre così i contorni ad una complessa realtà sociale e ad una memoria collettiva che, trasmessa oralmente, si nutre meno delle versioni storiche ufficiali che dell’elaborazione immaginativa dei singoli individui. La presenza di Mikhailov dimostra tra l’altro quanto in Twlight si sia preferito rilevare, del crepuscolo, la sua natura evocativa e fiabesca (“the magic hour”), piuttosto che le connotazioni negative di fine e decadenza cui spesso viene associato.
Indipendentemente dall’intensità del suo lavoro, Philip-Lorca diCorcia sembra essere, in questo contesto, un po’ fuori posto. È vero che l’artista, per rendere ancora più straniante e allucinante una luce californiana che richiede aggettivi superlativi, usa il flash in pieno giorno. Ma è un espediente che, anziché creare un effetto crepuscolare, permette un maggiore distacco dal soggetto, ricoperto da una patina che lo spoglia di profondità fisica quanto d’introspezione psicologica. Non è un caso che la foto che ha reso famoso diCorcia sia bagnata dalla luce di un frigorifero.
Impressionante e del tutto a suo posto è invece il lavoro dell’israeliano Ori Gersht, che per due anni ha fotografato il cielo londinese dalla finestra del suo appartamento. Chi pensa che a Londra predomini il grigio sulfureo resterà sorpreso davanti alle sfumature cromatiche colte da Gersht senza alcun filtro né ritocco digitale. Queste mere registrazioni meccaniche ci mostrano un cielo scarlatto, cobalto, amaranto, carminio, turchese: effetti causati dall’incontro inopinato dell’inquinamento atmosferico e dell’illuminazione esasperata della città. Quanto rende di colpo surreale il nostro habitat, e ci fa pensare alle tele dipinte su cui Ed Ruscha sovrappone le sue scritte.
Menzione speciale infine per l’installazione, decisiva per la riuscita della mostra: ogni artista è esposto in una sala apposita, immersa in un’atmosfera raccolta e abbuiata che finisce per diventare parte integrante dell’opera stessa. Peccato solo che, quando si esce dal museo alle cinque del pomeriggio, a Londra è già calata la notte.
riccardo venturi
mostra visitata il 10 ottobre 2006
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