Dopo le grandi retrospettive degli ultimi anni, viene spontaneo chiedersi se un’altra mostra su
Andy Warhol (Pittsburgh, 1928 – New York, 1987) sia davvero necessaria. Ma, una volta entrati negli ampi spazi della Hayward Gallery, ci si accorge immediatamente che
Andy Warhol. Other voices, other rooms (titolo tratto da un romanzo di Truman Capote) è una mostra decisamente diversa. Curata dall’indipendente Eva Meyer-Hermann e tematicamente suddivisa in tre grandi sezioni, lo show si concentra sulla produzione video-cinematografica di Warhol, offrendo una nuova prospettiva da cui avvicinare questa parte dell’artista, più oscura e decisamente meno accessibile.
Avvolto dalla musica dei
Velvet Underground, punto di partenza della mostra è
Cosmos, una panoramica visualmente travolgente su tecniche e mezzi utilizzati dall’artista nei suoi lavori. Coloratissime icone della Pop Art – da
Marilyn Monroe al
Brillo Box -, lettere, ritagli di giornali, fotografie, disegni, libri, copertine di dischi; e, ancora, numerosissime foto-tessere e Polaroid in bianco e nero di Edie Sedgwick, Mick Jagger e molti altri, incluso lo stesso Warhol. Il tutto a coprire le pareti di un assortimento di materiale privo di ogni ordine gerarchico o cronologico, che riflette l’approccio egualitario di Warhol nei confronti della produzione artistica.
Ma il corpo centrale della mostra sono i video e i film prodotti da Warhol a partire dagli anni ‘70. Moderno
voyeur affascinato dal suo prossimo e dalle sue storie, ama sperimentare con forme di comunicazione alternativa come il cinema e i video: ne risultano silenziosi film-ritratto, come gli
Screen Tests (1964-66), e i raramente visti
Factory Diaries, video-diari ossessivamente autoreferenziali in cui Warhol immortala in modo compulsivo l’universo di amici, ospiti e personaggi abituali della Factory.
Dal video alla televisione, il passo è breve. Racchiusa in un perimetro a stelle e strisce di
Tv-scape (la seconda sezione della mostra), è una scatola spaziale abitata da numerosi schermi che trasmettono simultaneamente i quarantadue episodi delle tre serie televisive create da Warhol tra il 1979 e il 1987 per la neonata Mtv. Informalmente basati sul formato domanda/risposta, permettono a Warhol di occuparsi di temi effimeri come moda, musica e arte, e raggiungere attraverso l’immediatezza della televisione il grande pubblico, per regalare a chiunque ne avesse il potenziale la possibilità di essere famoso per quindici minuti.
Nonostante annunci nel 1965 l’intenzione di abbandonare la pittura, Warhol non smette mai di dipingere, anche se a partire dal 1963 si dedica al cinema con sempre più entusiasmo. Dedicata al suo mezzo di espressione prediletto,
Filmscape è l’ultima sezione della mostra ed è anche la più vasta. Diciannove schermi di grandi dimensioni proiettano incessantemente una selezione dei film da lui creati tra il ‘63 e il ‘68, da
Chelsea Girls al lunghissimo
Sleep, in cui la cinepresa è fissata staticamente per cinque ore sul corpo nudo del suo partner addormentato. Trasformati dalla loro lentezza in oggetti veri e propri, al pari della
Campbell’s Soup Can, Warhol si serve di questi film per attirare l’attenzione delle masse su fatti troppo ovvi per esser notati e sollecitare una meditazione sulla transitorietà della vita.
Ma, a differenza di un oggetto, un film richiede un abbandono totale al flusso delle inquadrature che mette a dura prova la pazienza dell’osservatore, ed è con un certo torpore stupito che si entra nell’ultimo spazio, accolti dalle fluttuanti
Silver Clouds. Create da Warhol nel 1966 per suggellare il drammatico addio alla pittura, suggellano metaforicamente anche la fine della mostra. E nel riflesso argenteo delle nuvole in cui si rispecchia l’abbagliante universo prefabbricato di Warhol, è ancora possibile riconoscere il nostro.