Warhol dissacrante, eccentrico esploratore sociale. Altezzoso visionario della classe per bene, dei grandi di Hollywood. Colui che osò porre sullo stesso piano un barattolo di zuppa Campbell e il volto di Jackie Kennedy: dissacrazione del lusso o nobilitazione del povero? Questo è Warhol: il connubio fra pubblicità e arte, tra commerciale e raffinato. Un genio formatosi come disegnatore pubblicitario, approdato all’arte -superando l’espressionismo astratto- adottando la serigrafia, la tecnica a stampa con supporti in seta, come nuovo strumento “pittorico”. Inizia così la costruzione del mito di sé, del più attento, acuto conoscitore e denigratore della società moderna americana. Cinico, satirico, snotty, ma anche occhio vigile e disincantato del lato oscuro dell’american way of life.
La mostra presenta alcuni dei suoi lavori realizzati dal ‘62 al ‘64. Tema: le grandi star americane, la morte e la distruzione, tre elementi solo apparentemente scollegati ma di fatto simboli di una unica società. “Quando ho preso la mia prima televisione ho smesso di preoccuparmi così tanto di mantenere rapporti interpersonali”. Queste le parole di Warhol che aiutano a capire la sua sottile protesta (e nel contempo accettazione) nei confronti della vanificazione dei sentimenti e delle emozioni in un’America immobilizzata dalla ripetitività delle immagini. Sono gli anni della televisione tiranna che proietta messaggi, fatti, volti. Immagini bombardate, lanciate, e assorbite nella staticità della vita e dei pensieri. Sono gli anni toccati da eventi sconvolgenti che segnano un’epoca. Agosto 1962: morte shock di Marilyn. Novembre 1963: assassinio del presidente Kennedy. Maggio 1963: Martin Luther King è a capo di una protesta di studenti liceali di Birmingham terminata nel sangue. L’America è paralizzata, scossa, turbata dal lento sgretolarsi dei suoi miti di bellezza, denaro, fama e potere. È nel dipingere i volti in serie della Monroe dopo il suo decesso avvolto nel mistero, che lo stesso Warhol ammette “ho capito che tutto quello che stavo facendo non avrebbe dovuto essere altro che morte”.
Così le sale del MCA celebrano il suo pensiero mostrando in un crescendo di dramma e tensione, i volti di Elvis Presley e Liz Taylor. Liz che ride, Liz a cavallo, Liz che ammalia (quando si pensava che la donna dagli occhi viola sarebbe morta per le complicazioni dell’alcoolismo). E quelli cupi e persi della vedova Kennedy: Jackie che piange, che fissa il vuoto, che si copre. Per arrivare ai volti lacerati e insanguinati di giovani schiacciati da lamiere contorte, nella gigantografia che rappresenta lo schianto di macchina: il sotto, il fianco, il sopra dell’accaduto. Una foto sezionata, riprodotta nei dettagli ingranditi. E ancora i volti reali cupi e maligni di sette criminali, il vacuo orrore di una sedia elettrica in attesa di dead men walking.
Alcune bacheche mostrano ritagli di giornali, articoli del New York Times, dettagli di archivio. Foto reali di un uomo di colore aggredito da un cane poliziotto (bianco) durante una protesta. Fatti crudi e drammatici che costituiscono l’informazione, la risorsa, l’ispirazione di Warhol. Non amava definirsi sociologo, ma semplicemente osservatore attento del mondo e del tempo che gli apparteneva, quello del lusso e dell’eccesso, del mito, del sogno e della delusione. Uno sguardo ossessivo e maniacale, talvolta perverso, ma sempre schietto, che ancora oggi stenta ad essere riconosciuto ed apprezzato nei suoi contenuti più drammatici.
maria teresa bonfatti sabbioni
mostra visitata il 15 aprile 2006
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