Professore presso il prestigioso Media Laboratory del MIT (Massachusetts Institute of Technology) di Boston, John Maeda svolge da anni un’originale ricerca sulle nuove tecnologie, lavorando in particolare sullo spazio digitale e sulla sua compatibilità con le espressioni artistiche contemporanee. Sorprendenti i risultati, al punto che i suoi ipnotici motion paintings appaiono come il logico compimento della tradizione pittorica. Siamo lontani insomma dalla riduzione del reale ad un noioso agglomerato di pixel: le opere di Maeda si propongono di ibridare la sfera dell’arte e quella della scienza.
I sette video del ciclo Nature riempiono lo sguardo con un universo di segni che si esautora e scompare prima che gli si possa attribuire un qualsiasi senso. Gli obiettivi perseguiti? Due, principalmente. Da una parte indagare il modo in cui la tecnica ha reinventato la natura: paesaggi di pixel che mimano un acquazzone o la crescita rigogliosa di ciuffi d’erba; solidi rocciosi che evolvono in uno spazio 3D; una forma cristallina in divenire che rivela sofisticate scomposizioni; tracciati vorticosi che somigliano a frattali. È un mondo di atmosfere subacquee e indistinte distese di ghiaccio, un mondo simmetrico eppure senza dimensioni, in cui la complessità si conforma ad un ordine geometrico superiore. Ma è soprattutto un mondo algido, architettura perfetta che non lascia spazio alla presenza umana.
Tuttavia, per uno strano ribaltamento, Nature non evoca tanto una dimensione futuribile quanto una faglia temporale pre-umana, un luogo primigenio in cui le forme sono ancora indistinte e metamorfiche, non determinate né destinate ad una funzione precisa.
E poi, il secondo obiettivo: dimostrare per immagini che la tecnica è in grado di reinventare la pratica pittorica. Qualche esempio? Gli effetti flou che evocano l’acquarello; i passaggi fulminei di luce come colpi di pennello; le macchie, i muri, le cascate di colore che sbavano lo schermo, sporcandolo come si sporca una tela. Sono questi riferimenti –troppo insistiti?– al laboratorio più intimo della pittura che rendono il lavoro di Maeda propriamente artistico, in un’evidente ricerca di legittimazione. Riferimenti che bilanciano il lato ludico della sua produzione, come in Eye’m Hungry, opere interattive vicine al codice dei videogiochi in cui lo spettatore è invitato, per esempio, ad organizzare il traffico marino o a far saltellare una distesa di broccoli pigiando sulla tastiera di un computer. Piccoli spazi d’azione, che la pittura non ci aveva permesso nemmeno di immaginare.
riccardo venturi
mostra visitata il 10 dicembre 2005
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