È sceso un silenzio sacrale quando
Vito Acconci, lui in carne e ossa, ha preso la parola per inaugurare la mostra dell’“amico”
Anish Kapoor (Bombay, 1954; vive a Londra), che gli stava di fronte tra il pubblico, tutti riuniti in quella grande sala del museo che ospita l’installazione più attesa e singolare dell’artista anglo-indiano. In piedi su una piccola pedana, Acconci ha letto, come fosse una poesia, un decalogo di suggestioni derivategli proprio dall’opera che si profilava alle sue spalle. Appariva persino emozionato.
Kapoor è uno dei più importanti scultori oggi in circolazione. Fece scalpore nel 1990, alla Biennale di Venezia, con i suoi massicci cubi di pietra, ognuno dei quali aveva sulla parte superiore un foro che sprofondava in un abisso insondabile. Gettarvi lo sguardo era come spiare un’essenza imperscrutabile, che lasciava allibito l’osservatore. In quell’occasione gli fu assegnato il Premio Duemila quale miglior giovane artista. Nel ‘91 il prestigioso Turner Prize.
Kapoor ama i materiali elementari, i pigmenti puri, i volumi arcaici. Ama lavorare sulle loro possibilità espressive, per chiarire che la loro apparenza, per quanto materica possa essere, non esaurisce la loro stessa intima consistenza. È esemplare un ritratto fotografico che compare a conclusione del catalogo di questa mostra: l’artista si fa cogliere nell’istante in cui il suo alito lascia la traccia opaca su uno specchio che riflette la sua immagine. Luogo – lo specchio – dove ogni cosa
è, senza esserci veramente; realtà paradossale e, al tempo stesso, pienamente aderente al mondo. Eterotopia, per dirla alla Foucault. In quel frangente, Kapoor riesce a incrociare molte delle sue tematiche.
Quattro le opere in mostra, monumentali nelle dimensioni ed elaborate site specific. A eccezione dell’installazione collocata nella grande sala, le altre sono il portato delle ricerche materiche e concettuali degli ultimi anni. Sono costituite da un impasto di cera e vaselina, color rosso cupo, che si presenta come una pesante massa, malleabile e ben formata.
Past, Present, Future (2006) è un quarto di sfera addossato alla parete,
Push-Pull II (2008-09) una sorta di semicerchio posto in verticale,
Shadow Corner (2008-09) un cubo sezionato in cui è incavato un vuoto sferico.
Abnormi oggetti misteriosi che attivano una curiosità tattile e olfattiva, oltreché visiva, introducendo interrogativi sulla loro reale forma e consistenza, sulla potenzialità di un loro disfacimento/mutamento lento e progressivo, se non intervenisse un apposito congegno meccanico, adeguatamente incorporato, a rimodellare periodicamente la forma originaria.
Ma l’installazione più singolare, che dà anche il titolo alla mostra, è
Shooting into the Corner (2009). L’opera a cui Acconci ha dedicato poetiche dichiarazioni d’amore. Ecco: dopo le parole, il fragore brutale di uno sparo che fa sobbalzare il pubblico in sala. Un potente cannone, a comando meccanico e alimentato da un compressore pneumatico, espelle un proiettile fatto di quella stessa amalgama cerosa che caratterizza gli altri lavori. Ben undici chilogrammi che, alla velocità di cinquanta chilometri orari, vanno a infrangersi contro un angolo della stanza.
Un impatto tremendo e il proiettile si spappola, imbratta, rimbalza, cola, si deposita in balia di una ignota forza naturale. Ripetuto molte volte al giorno, il rituale dello sparo a fine esposizione avrà portato a termine l’“opera”, con un accumulo materico calcolato in venti tonnellate di peso.