Dopo tanto accennarne da dietro le quinte e tanto
Sulla scia di sporadiche revisioni sull’arte contemporanea italiana con le balenanti ma significative monografiche dedicate negli ultimi tre anni a Piero Manzoni, a Lucio Fontana, e poi a Alighiero Boetti e Michelangelo Pistoletto, questa “non-retrospettiva”, come la definiscono e la vogliono i curatori, sembra il rivelarsi di un mistero glorioso al quale pure da atei vogliamo credere: la presenza dell’arte contemporanea italiana a livello internazionale. Una simile rivelazione non poteva che avvenire in un tempio contemporaneo dell’arte al quale di nuovo neppure da atei riusciamo a resistere. E l’archeologia industriale della Tate Modern in questo senso non fa che riverberare sulle opere presentate il ricordo di un boom industriale che in Italia si verificò in ritardo e di cui gli artisti dell’Arte Povera sono stati diretti protagonisti anche nel momento del suo declino.
Mi avvio, un po’ in ritardo ma con curioso interesse, a verificare personalmente contenuti e forme di
Questa mostra di fatto è un archivio semi-vivente che suscita brividi negli appassionati per la cura attenta dei dettagli storici. Ci sono quasi tutti: gli igloo di Merz, le mappe di Boetti, l’Italia d’oro alla rovescia di Fabro, il Cannone Bella Ciao di Pascali e l’Apoteosi di Omero di Paolini. Ci sono soprattutto gli esperimenti sullo spazio di Luciano Fabro, le revisioni sulla funzione e stato della pittura di Pistoletto e Paolini, le celebrazioni
Il recupero critico dell’aspetto in-progress e performativo dell’Arte Povera, nonché del suo rapporto dialettico dentro e contro la tradizione pittorica e scultorea, predomina in questa mostra su altri aspetti che pure hanno in passato interferito nell’interpretazione di questo periodo, soprattutto quello politico la cui risonanza si fa oggi più fatica a capire.
Rimane straordinario il meccanismo critico innescato dalla Tate Modern nel tentativo di rinnovare le metodologie curatoriali di un museo. Puntualmente la contraddizione ritorna a galla, facendo di questo il museo autocosciente del terzo millennio. Mi spiego: l’attenzione viene focalizzata su quegli aspetti fenomenologici e performativi dell’arte contemporanea che possono essere sperimentati solamente nell’immediato e che per natura sfuggono alle classificazioni e alla museificazione. Nondimeno, tali momenti sono raccolti e presentati nel laboratorio che ogni museo di fatto è, scontrandosi con le
D’altronde è questo il ruolo e la funzione di un museo: conservare, stimolare la memoria e magari anche attivare l’ingegno a produrre di nuovo arte dentro e oltre la storia. ll pugno fosforescente di Gilberto Zorio, a chiudere il percorso narrativo della mostra, assume allora una valenza particolare. Non tanto simbolo di una presunta aggressività nazionale che preferiremmo negare, vorrei leggere quest’opera ancora così attuale come l’augurio per una luminosità di energie che, proprio nella generale “buia” carenza di solide strutture nazionali che sostengono l’arte contemporanea italiana, si spera non vengano meno.
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Mostra interessante e affatto difficile da seguire. Nonostante la critica severa del Sig. Vallora sulla Specchio ai curatori e alla tematizzazione del percorso, ritengo che la scelta cronologica delle opere non sia sempre e comunque l'unico criterio possibile. La mostra è in effetti dotata di panelli esplicativi semplici e precisi, riferiti a ogni artista e supportati, come se non bastasse, da bacheche per la consultazione di documenti, fotografie, riviste dell'epoca,che completano e contestualizzano le opere in mostra.
Ciò che lascia perplessi in realta' e che all' estero si prendono la briga di combattere le nostre battaglie e consacrano l'arte povera mentre in Italia ci animiamo in futili disquisizioni e lasciamo che i nostri migliori artisti rimangano ai margini della scena artistica per gli anni a venire.
Complimenti per il corredo iconografico dell'articolo. Grazie.