Camminando per raggiungere lo spazio espositivo l’occhio del visitatore si imbatte in strane presenze: dei corpi in ferro sparsi per la città, sopra i tetti degli edifici. Tutte quelle sculture fanno parte di Event Horizon, l’ambiziosa installazione progettata da Antony Gormley (Londra, 1950) per l’occasione. Tutte le figure sono stampi in ferro del corpo dell’artista che svettano all’orizzonte, e si ritrovano poi all’interno dello spazio espositvo, ma questa volta impiccate, distese a terra o attaccate alle pareti.
Tutto il lavoro di Gormley ha come punto di partenza il corpo, il suo o quello di altri, che utilizza per indagare lo spazio -sia come concetto astratto che come luogo fisico– con opere che coinvolgono lo spettatore quasi senza la sua volontà. Space Station, uno dei nuovi lavori, è una struttura colossale formata da 27 tonnellate di lastre di acciaio che ricreano una prigione-labirinto con infinite piccole aperture che permettono di guardare all’interno. Forse questo è solo un modello per realizzare una struttura realmente abitabile. Il corpo umano si ritrova in Matrices and Expansions, una serie di sculture in filo d’acciaio. Ma questa volta si tratta di un corpo che si dematerializza, che abbandona il peso e la massa e si perde nello spazio. I lavori diventano così strutture aperte, quasi disegni tridimensionali che fluttuano e rivelano un corpo vuoto, che emerge per l’assenza. Come sostiene Gormley: “Quello che ho provato a mostrare è lo spazio nel quale il corpo è inserito, non rappresentare il corpo stesso”.
La leggerezza viene abbandonata con Allotment II, un esercito di 300 unità in marmo, ognuna delle quali ha dimensioni diverse. Queste “casse” sono gli ipotetici contenitori di 300 persone reali, tra i 18 mesi e gli 80 anni, misurate dall’artista; tutte le unità infatti possiedono le aperture necessarie a ogni essere vivente: bocca, orecchie, ano e genitali. Questi strani edifici formano tutti insieme un labirinto virtuale, una sorta di agglomerato urbano, e l’intenzione di Gormley era proprio quella di giocare sull’accostamento tra “corpo” e “edificio”, rispettivamente la prima e la seconda abitazione per ogni essere umano.
Il lavoro più coinvolgente è senza dubbio Blind Light, una grande stanza di vetro colma di vapore, luce bianca e freddo. La prima fruizione avviene all’esterno, vedendo le persone all’interno che avvicinandosi alle pareti emergono come ombre. La vera esperienza però è successiva. Entrando nella struttura si è catapultati in una nuvola, un mondo disorientante che, se non affrontato con positivo abbandono, può anche diventare ostile. In queste condizioni, con la visibilità quasi nulla e l’udito come anestetizzato, si è obbligati a prendere coscienza del proprio corpo e dello spazio nel quale ci si muove.
Come spiega l’artista, “l’architettura è per antonomasia il luogo della sicurezza e della certezza riguardo al dove si è. Dovrebbe proteggere dal tempo, dal buio e dall’incerto. Blind Light fa saltare tutto questo”.
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alessandra olivi
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