Fin dai suoi esordi nel 1967, la Lisson Gallery ha sempre dimostrato un’attenzione particolare per l’arte minimal e concettuale, ospitandone gli esponenti più importanti. Oggi, ancora una volta, apre le porte ad un artista che, seppure di qualche generazione successiva, di concettuale si nutre. È l’inglese Jonathan Monk (Leicester 1969; vive a Berlino), che qui si confronta con i masterpieces degli anni d’oro dell’arte americana e britannica, ripassandoli nella “padella” del post-conceptual. In un’epoca in cui il concettuale non cessa di lasciare i suoi strascichi, seppur soffrendo di un chiaro ritorno all’oggetto, Monk ironizza astutamente sui meccanismi che ne sono a capo e che infarciscono il suo stesso lavoro.
Nostalgic for the future: una scritta al laser troneggia in una delle sale come monito per una società, la nostra, che ama proiettarsi febbrilmente nel futuro, consumandolo con tanta avidità da dimenticare il presente. Sulla falsariga di studiosi e antropologi, come Jameson e Appadurai, che hanno introdotto il concetto di “nostalgia per il presente” e di frantumazione del reale, Monk si fa interprete visivo di un sentire tipico della nostra epoca.
E in questo clima di revival propone due tele di Rothko, o meglio “alla” Rothko. Monk ha chiesto a Michael Baldwin e Mel Ramsden,
Ancora: una foto ritrae un proiettore, un rumore meccanico ci invita a sbirciare dietro il pannello che la ospita per scoprire la presenza di un proiettore funzionante che sta proiettando… l’immagine di un proiettore a sua volta. One and three: Kosuth rivisitato quarantuno anni dopo. Sunday to Thursday: 10:00-18:00: lettere al neon come insegne pubblicitarie informano sugli orari della galleria: arte o comunicazione di servizio? In una versione spensierata di quella dialettica del neon che Bruce Nauman portò a più profonde riflessioni, le due interpretazioni combaciano confondendo le acque. Nove cerchi di varie dimensioni poggiati a terra rappresentano le misure prese da un sarto per cucire una camicia all’artista. Una sorta di autoritratto duchampiano in cui le dimensioni del proprio corpo diventano unità di misura universale.
A completare questo ironico sguardo sul passato e a chiosare il titolo della mostra, ecco due paia di mani in cera, così perfette da sembrare reali, protette in una teca di vetro. Una delle due tiene un pastello nero.
Forse lo stesso che Monk ha utilizzato per tracciare le linee rette sul muro del nuovo spazio della galleria, dove ha contemporaneamente inaugurato la personale di Sol LeWitt. Si tratta dello stesso wall drawing esposto nel 1973, in occasione della prima mostra dell’artista americano alla Lisson. Non vi è dubbio che così Monk punti a gettare goliardicamente l’autorità artistica in pasto al riciclaggio.
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