Il canadese
Jeff Wall (Vancouver, 1946) è un artista colto. Non a caso i suoi primi studi avvengono nel campo della storia dell’arte, prima alla University of British Columbia, poi specializzandosi a Londra al Courtauld Institute of Art sulla pittura del XIX secolo e sul cinema. La decisione di dedicarsi completamente alla fotografia arriva alla fine degli anni ‘70 con il primo lightbox,
The Destroyed Room (1978). Tutte le sue opere -poche, appena attorno alle centocinquanta- vivono di incessante confronto con la storia.
Ma analizzare le sue fotografie nel gioco dei riferimenti formali è solo un’attitudine didascalica che non rende appieno la forza dei suoi lavori, anche se utile per tracciarne un riferimento filologico, se non concettuale. Così certo è importante leggere
Exposure, il progetto in bianco e nero per il Deutsche Guggenheim, come un riferimento al cinema neorealista italiano degli anni ‘40 e ‘50, ma parzialmente e di sfuggita. Perché non si tratta di citazioni -nel senso naturalmente postmoderno- ma di un’attitudine tutta moderna di profonda comprensione del passato, in modo da rendere un’opera “nuova”, affinché sposti la nostra percezione del mondo, senza alcun indugio sull’arte per l’arte. (È interessante notare come Baudelaire, divorato dall’artista canadese, nel suo
Salon del 1846 giudicasse un lavoro importante come la suggestione della memoria dei maestri in una nuova identità, scevra di citazionismi trasparenti.)
Quello di Wall è sempre un ragionamento all’interno del medium e del rapporto che esso ha con gli altri media, pittura e cinema innanzitutto. Per il suo ciclo si possono stabilire paragoni con
Walker Evans e il cinema di
Vittorio De Sica e
Roberto Rossellini -citati in catalogo dalla curatrice Jennifer Blessing- ma occorre definire di quale realismo si sta parlando nel caso di Wall. Definiamo dunque il realismo “classico” come il distacco dell’artista dal referente banale e quotidiano verso una resa di dignità allo stesso. Allora cogliamo un filo rosso che va da
Courbet a
Manet a De Sica passando per Evans.
Ma nelle fotografie di Wall non c’è la dignità del soggetto; il contenuto e la forma del referente rappresentano entrambi la banalità. Non c’è alcun contrappunto. Ed è questo il valore dell’artista canadese: le sue immagini da passante casuale, pur costruite -i soggetti recitano la parte che è loro propria- rimangono da passante casuale, in un difficile equilibrio tra caos e controllo. Perché le sue fotografie disturbano, mettono in scacco le percezioni quando l’osservatore realizza che “c’è qualcosa che non va”. Perché ci sono piccoli e appena percettibili segni che evocano la faccia nascosta ed enigmatica della realtà, come le opposte espressioni dei bambini nel ludico campo di prigionia di
War Game: il carceriere corrucciato e annoiato, e uno dei prigionieri che ride. O la macchina senza targa di
Tenants. Elementi di disturbo che nelle grandi stampe di
Exposure offrono a qualunque spettatore le proprie, contraddittorie associazioni d’idee.
Ma infine, nonostante tutto, bisogna cedere al gioco dei riferimenti. Come scordare il senso di mistero quotidiano di un altro grande fotografo, amato da Wall, come
Eugène Atget?