Dopo esser inciampati nella crepa di
Doris Salcedo alla Tate Modern, l’ascesa alla mostra di
Louise Bourgeois (Paris, 1911; vive a New York) ha il sapore di un momento di riflessività. Come si dovrebbe addire a ogni museo degno di tal nome.
La retrospettiva è ricca e articolata, ordinata per lo più con criterio cronologico. Si parte coi dipinti anni ’40 della serie
Femme maison, posti in relazione con
Cell (Choisy) (1990-3). Si prosegue con le nove incisioni di
He Disappeared into Complete Silence (1947), affiancate dai
Personages, le coeve sculture verticali. Da segnalare un punto di demerito -forse l’unico- per l’allestimento di questa sala. Assegnato poiché non è possibile girare intorno alle opere, a causa di un sistema di protezione che permette di osservarle soltanto a distanza e frontalmente. Discorso simile vale per le sculture “brancusiane” dei primi anni ’50 esposte nella stanza successiva.
Fortunatamente, la fruizione migliora assai nel resto del percorso, grazie anche alla notevole metratura delle stanze.
Si assiste dunque al passaggio, a metà degli anni ’60, dall’utilizzo del legno a quello dei materiali ai quali è più legata l’immagine di Bourgeois: gesso, latex, stoffa, bronzo. Soprattutto, la verticalità delle prime sculture cede il passo a produzioni amorfe, avviluppate su se stesse, spesso dotate di ambigui e babelici ricettacoli (si pensi a
Labyrinthine Tower (1962), sin dal titolo). Si giunge così alla prima installazione nella parabola artistica di Bourgeois,
The Destruction of the Father (1974), qui attorniata dai bifallici
Janus (1968) pendenti dal soffitto. A seguire, un focus diacronico dedicato alla “manipolazione” del marmo funge da premessa emotiva all’enorme e claustrofobico spazio che ospita le grandi installazioni ideate a partire dagli anni ’80, cioè i cicli
Cell (come altre tre opere,
Cell (Clothes) (1996) sarà però esposta soltanto alla Tate) e
Red Room.
Prima di arrivare all’ultima sala, si transita lungo le sculture in tessuto del nuovo millennio, che recuperano la verticalità di sessant’anni prima, ma che risultano arricchite da un percorso straordinario, che ha portato Bourgeois ben lungi da ogni seduzione astratta o minimale. La conclusione è affidata a una sorta di ricapitolazione della retrospettiva, affidata a studi su carta e a lavori di ridotte dimensioni. A chiudere realmente la rassegna è però la vista dall’alto dell’enorme ragno (
Maman, 1999) installato all’esterno, sulla riva del Tamigi.
Compensa la sbavatura nell’allestimento il libro-catalogo strutturato come un dizionario, i cui lemmi sono compilati con ampie citazioni dell’artista e con una serie di interventi firmati da critici quali Robert Storr e Donald Kuspit. Una delle riflessioni stimolate dal volume è dovuta a una lampante dichiarazione di Bourgeois: “
Amo incondizionatamente il lavoro di Bacon”. La sintonia col pittore dublinese evidenzia, da un lato, la distanza di entrambi dal Surrealismo, al quale sono stati spesso e indebitamente associati. Dall’altro, e in maniera collegata, conferma l’assenza di ogni intento narrativo nella loro opera.
Lo sottolinea Rosalind Krauss alla voce
Body (Part), che sintetizza alcune pagine di
Celibi. È
desiderio la parola chiave per (leggere il lavoro di) Louise Bourgeois. Senza per questo doversi affidare alla “logica simbolica” della psicoanalisi più ortodossa. Piuttosto, il desiderio di Bourgeois fa segno verso un àmbito in cui viene meno la razionalizzazione. Un àmbito dove a regnare è l’informe, la bruta concretezza dei fatti, della materia, degli umori.