In occasione di questa recente retrospettiva Rineke Dijkstra (1959) espone nove cicli di opere che ritraggono alcuni tipi umani: dal matador ai soldati israeliani, dalle donne che hanno appena partorito ai collegiali brufolosi, dai frequentatori di una discoteca a quelli di lontane spiagge dell’Europa orientale. A restare inalterata è l’assoluta centralità dei soggetti. Nessun dettaglio dello sfondo deve perturbare la loro frontalità, al punto che, per staccarli dalla linea d’orizzonte – persino quella elementare e quasi astratta del mare – il punto di vista risulta spesso riabbassato. Tuttavia questa frontalità ostentata, la centralità della composizione, così come la grandezza del formato, non sono concessioni al monumentale o al formalismo. Ad emergere è al contrario l’intensa fragilità dei personaggi, che l’obiettivo coglie con discrezione partecipe. Non a caso l’artista olandese si è sempre interessata all’adolescenza, delicata fase di transizione e di affermazione della propria soggettività.
Il lavoro della Dijkstra è incentrato soprattutto sul problema della posa davanti l’obiettivo, un atteggiamento né naturale né artificiale, in cui in realtà sono i piccoli dettagli a far emergere precise caratteristiche psicologiche. Le mani, ad esempio, sono spesso più eloquenti delle espressioni del volto. Se i bambini sono quasi incosapevoli d’averle, negli adolescenti si trasformano in estremità ingombranti, sempre fuori posto: dietro la schiena, in tasca, piantate sui fianchi, lasciate cadere sulle gambe come oggetti inanimati.
Inoltre, attraverso il lavoro sulla posa, l’artista si rende conto che molti dei suoi soggetti assumono – per lo più in modo straordinariamente inconsapevole – delle posture che rievocano il nostro immaginario visivo collettivo. Dalla pittura di Botticelli ai film hollywoodiani. La posa si trasforma così in un efficace strumento rivelatore di background e contesti culturali, cuciti addosso come una divisa (tema prediletto di un altro ciclo), persino nei gesti più banali.
Nel video che accompagna l’esposizione, Dijkstra racconta la storia nascosta dietro ad ogni foto. Da una parte non nasconde il piacere di poter far parte di una situazione senza sentirsi direttamente implicata, dall’altra confessa che il suo lavoro rinvia a una sorta di autoritratto. Come se nei suoi modelli ritrovasse alcune sfaccettature della propria personalità. Come se se si trattasse in realtà un diario per immagini. In cui sono gli altri a lasciare la loro traccia, a parlare per noi e a costituire la nostra memoria personale.
riccardo venturi
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