Che la propaganda fascista abbia fatto leva sui tesori
artistici del nostro paese non è certo cosa nuova. Fascismo e Futurismo hanno
un percorso comune fin troppo noto, mentre l’importanza delle mostre d’arte
italiana volute da Mussolini all’estero è stata recentemente ricordata da Emily
Braun del Cuny Graduate Center di New York.
Ciononostante, la piccola mostra – poco meno di venti
opere – organizzata da Catherine Fraixe ha smosso non poco le acque in Francia,
grazie anche a un articolo consacratogli da Philippe Dagen sulle pagine di
Le
Monde.
Gli anni al centro della mostra, 1932-36, vedono
modificarsi molto rapidamente il quadro delle alleanze internazionali. Nel
giugno 1933, Francia, Italia, Germania e Inghilterra firmano un patto di non
belligeranza, ma il fallimento quasi immediato dell’alleanza porta a un
avvicinamento tra le sole Francia e Italia, che ha nella comune esaltazione del
mito della “latinità” uno dei suoi principali obiettivi.
In quegli stessi anni, e sulla scorta dell’evoluzione del
quadro politico, numerose donazioni italiane arricchiscono le collezioni
pubbliche francesi d’arte contemporanea. Nel 1932 il collezionista milanese
Frua de Angeli offre un gruppo di opere al Musée du Jeu de Paume. L’anno
seguente, Emanuele Sarmiento dona una serie di dipinti al Musée des Beaux-Arts
di Grenoble. Nel 1935 Parigi ospita due grandi mostre dedicate all’arte
italiana, inaugurate da Galeazzo Ciano e Albert Lebrun, il Presidente della Repubblica
francese:
De Cimabue à Tiepolo e
L’Art italien du XIX et du XX siècles. Parte delle opere moderne
esposte vengono offerte dal senatore Borletti al Jeu de Paume. Nel 1936,
infine, il conte Sarmiento dona un secondo e ultimo gruppo di dipinti al comune
di Parigi.
Il primo grande merito di questa mostra è quindi quello di
aver riscoperto circa cento opere d’arte italiane, conservate -salvo rare
eccezioni- nei depositi dei musei francesi e inizialmente nascoste per far
dimenticare l’attrazione che l’Italia fascista esercitò su numerosi esponenti
politici francesi di quegli anni. Le due mostre parigine del 1935 devono molto
a Henri de Jouvenel, ambasciatore francese a Roma tra il 1932 e il 1933.
L’occupazione fascista dell’Etiopia nell’autunno del 1935 difficilmente avrebbe
potuto realizzarsi senza l’avallo del primo ministro francese, Pierre Laval.
Non c’è da stupirsi quindi nel ritrovare questi personaggi ancora al potere
durante gli anni del regime di Vichy, ed è d’altronde in quegli stessi ambienti
che si propaganda un ideale di Europa unita sì, ma sotto il controllo nazista.
Il ritratto di Mussolini di
Yves Brayer del 1934, autografato dallo
stesso Duce, viene comprato dallo Stato francese per esser esposto nei locali
dell’ambasciata. È l’unica opera francese, accanto ai dipinti di
Campigli,
Carrà,
Fillia,
De Pisis,
Severini,
Sironi,
Tozzi, o ancora della moglie di
Marinetti,
Benedetta Cappa. Nessuna opera allude visivamente
al fascismo, ma tutte rientrano in un quadro politico ben definito. Come spiega
Catherine Fraixe, “
questa mostra vuole ricordare l’uso politico delle
immagini, come esse contribuiscano alla definizione di una comunità culturale,
perfino razziale”.
L’efficacia di questo filone della propaganda fascista,
anche in un paese meno sbilanciato a favore di Mussolini come la Gran Bretagna,
è testimoniato da un articolo a firma di T.W. Earp sul
New Statesman del 4 gennaio 1930. Earp commenta
così la mostra dei capolavori dell’arte italiana voluta a Londra: “
Quali che
siano le smorfie che può ispirarci il fascismo, questo paese sarà per sempre
debitore al governo italiano”.
L’esaltazione del talento diplomatico di Mussolini e del
regime fascista non è certo l’obiettivo della mostra di Bourges; il suo primo
intento è piuttosto di ricordare alla coscienza repubblicana gli errori del
proprio passato. Ma, nel percorrere le due piccole sale, è l’importanza dello
studio del legame tra politica e arte che appare veramente evidente. Perché, se
è vero che la bellezza non governa certo il mondo, è altrettanto innegabile che
i politici vi fanno ancora oggi continuamente ricorso per manipolare l’opinione
pubblica.
Viene da chiedersi, ad esempio, se l’acquisto di un
crocifisso ligneo di dubbia autografia michelangiolesca per oltre tre milioni
di euro e l’immediata tournée organizzata per presentarlo in tutta Italia siano
dettati da un interesse sincero nei confronti del patrimonio culturale italiano
o se non si tratti piuttosto di uno slogan che serve solo a coprire una
gestione poco oculata delle ricchezze del nostro paese.