La
committenza ucraina mostra i muscoli senza sfoggiare la testa. I sostenitori
indomiti della personalità di
Damien Hirst (Bristol, 1965; vive a Devon e Londra) hanno notato
con un pizzico di delusione l’assenza del teschio platinato e tempestato di
diamanti da 50 milioni di sterline.
Eppure,
le 104 opere dell’artista in mostra a Kiev avranno saziato i visitatori del
Pinchuk Art Center. Una mostra monografica sbalorditiva, esauriente, smisurata
nelle ambizioni. Un evento eccezionale, che conferma la sete locale per l’arte
contemporanea.
Ad
ogni modo, difficile fotografare il rapporto reale tra domanda e offerta in
Ucraina di fronte a questi eccessi. I sei piani da 4mila metri quadrati del
museo fondato dal miliardario locale Victor Pinchuk non sono bastati a
contenere il catalogo dell’artista britannico. Il circo continua all’esterno.
Il percorso si conclude in un tendone allestito nel cortile del centro
commerciale Arena City, dove i celebri squali tigre conservati in formaldeide convivono
con gli altrettanto noti ingrandimenti su tela di tessuti tumorali: inquietanti
e psichedelici come di consueto.
Sala
dopo sala, le opere più note di Hirst si susseguono senza un ordine
cronologico. Con tutta questa dispersione materiale, la sindrome di Stendhal è
in agguato. Non è un caso se i conoscitori di Hirst riservano la loro
attenzione alla opere esposte al primo piano. Una scelta sensata, quella di
condensare buona parte della produzione inedita dell’artista sullo stesso
livello dell’edificio. Punto di partenza obbligato della mostra, il dipinto
Floating
Skull (2006), che affoga un cranio
lunare senza mandibola nel nero di una pittura a olio ruvida e pastosa.
Tutti
gli altri dipinti in mostra realizzati in studio da Hirst appartengono alla
matrice figurativa del “teschio galleggiante” di cui sopra, archetipo della
vanitas
vanitatum contemporanea. Hirst
procede per accumulazione, accostando sulla tela il teschio ad altri simboli
del suo celebrato universo figurativo. In
Two Skulls with Lemon and Ashtray (2007), gli oggetti di scena fluttuano in assenza
di gravità nel buio della tela. Nel caso di lavori più tradizionali quali
Skull,
Shark’s Jaw and Iguana (2008), gli
oggetti poggiano invece sulla sagoma di un tavolo, appena richiamato dai solchi
di pittura che ne disegnano i contorni.
In
linea generale, le lugubri nature morte del britannico, cromaticamente accese
dal basso da pennellate verdi – che delineano alcune trame vegetali -,
testimoniano una ripresa delle tecniche tradizionali. Nel bene e nel male,
Hirst sembra tornato agli anni di tirocinio al Goldsmith’s College.
Una
tendenza confermata dagli autoritratti inediti su carta da giornale.
Self
Portrait Mexico (2007-08),corredato da una dedica all’amico e mecenate ucraino, tratteggia un ritratto
essenziale e sobrio dell’artista, lontano dalle esasperazioni espressive del
suo prediletto
Francis Bacon.
Nessuna
delega sul lavoro, come nel caso dei
dot painting:
Hirst
torna a dipingere in prima persona. Il teatro funebre dell’artista si nutre di
un insolito ritorno alla manualità. Ma gli altri membri del jet set avranno
ancora il coraggio di sporcarsi le unghie in atelier?
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wow, dal miglior offerente. Hirst interpreta benissimo l'artista di finire '900.