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19
dicembre 2008
fino al 20.XII.2008 Richard Prince New York, Larry Gagosian
around
L’ultima serie di lavori di Richard Prince presentati a New York. Dove si mettono insieme Les demoiselles d’Avignon di Picasso, la pittura astratto-espressiva di De Kooning e l’approccio all’immagine ready made di Warhol. Su tele grandi come quelle di Schnabel...
Il titolo della mostra, Canal Zone, si riferisce al luogo di nascita di Richard Prince (Panama, 1949; vive a New York), una zona contraddistinta da una forte presenza statunitense in stile “colonialista”.
Decostruttore dell’immaginario eroico americano – il suo uomo Marlboro fu invitato da Francesco Bonami alla Biennale di Venezia -, Prince denuncia attraverso un ricercato mélange di citazioni e prelevamenti pop la situazione di un mondo, il proprio, segnato dall’assoggettamento della vita civile a un profondo razzismo e agli interessi di compagnie private.
Con un approccio che si pone ambiguamente a metà strada tra il goliardico e il sardonico, Prince riscrive la Storia, creando un eroe attorniato da “demoiselles” discinte, prelevate dalla stampa erotica vintage e “mascherate” attraverso un escamotage astratto-geometrico. Prince le stampa sulla tela, poi ne ricopre la bocca e gli occhi con piccole e semplici ellissi di colore bianco o giallo. Il suo eroe rastafariano, di colore e con lunghi dreadlock, domina la scena di tutte le opere in mostra, una quindicina. Il suo sguardo, i suoi muscoli e la sua pelle contrastano con le morbide, anonime carni della donna “da consumare” occidentale.
Prince non ammicca a Rousseau e all’idea del buon selvaggio. Il suo eroe è più come uno dei “famous negro” di Basquiat: un fiero capo tribale, un guerriero che si esprime attraverso la chitarra rock che sta spesso al suo fianco. In realtà, Prince gioca a ripetere la medesima immagine dello stesso uomo, uno scatto documentario che l’artista trasforma in narrazione, usando il tema del condottiero, che domina il paesaggio e si contorna di “schiave”.
Il metodo di Prince fa riferimento alla pratica del “mettere insieme” che si usa per costruire il lay-out provvisorio delle riviste (ne offre una bella immagine il film Il diavolo veste Prada, mentre “Permanent Food” di Maurizio Cattelan e Paola Manfrin ne mostra una versione “rubata”). La stampa su tela, il collage rudimentale e l’intervento gestuale della pittura, che cancella per esaltare e dare sensi inediti, sono stumenti con cui Prince scrive la sua storia.
Quella un poco surreale, eroica e carnevalesca di “un tipo”, come spiega lo stesso Prince, “che sbarca dall’aereo a St. Barth e subito gli viene detto che c’è stato un olocausto nucleare nel resto del mondo. Così lui guarda la sua famiglia e dice ‘non possiamo tornare indietro’”. Prince riscrive a modo suo l’isola di Utopia di Tommaso Moro, impostando una versione caricaturale del perfetto sistema socio-politico sognato dal padre di tutte le utopie.
Decostruttore dell’immaginario eroico americano – il suo uomo Marlboro fu invitato da Francesco Bonami alla Biennale di Venezia -, Prince denuncia attraverso un ricercato mélange di citazioni e prelevamenti pop la situazione di un mondo, il proprio, segnato dall’assoggettamento della vita civile a un profondo razzismo e agli interessi di compagnie private.
Con un approccio che si pone ambiguamente a metà strada tra il goliardico e il sardonico, Prince riscrive la Storia, creando un eroe attorniato da “demoiselles” discinte, prelevate dalla stampa erotica vintage e “mascherate” attraverso un escamotage astratto-geometrico. Prince le stampa sulla tela, poi ne ricopre la bocca e gli occhi con piccole e semplici ellissi di colore bianco o giallo. Il suo eroe rastafariano, di colore e con lunghi dreadlock, domina la scena di tutte le opere in mostra, una quindicina. Il suo sguardo, i suoi muscoli e la sua pelle contrastano con le morbide, anonime carni della donna “da consumare” occidentale.
Prince non ammicca a Rousseau e all’idea del buon selvaggio. Il suo eroe è più come uno dei “famous negro” di Basquiat: un fiero capo tribale, un guerriero che si esprime attraverso la chitarra rock che sta spesso al suo fianco. In realtà, Prince gioca a ripetere la medesima immagine dello stesso uomo, uno scatto documentario che l’artista trasforma in narrazione, usando il tema del condottiero, che domina il paesaggio e si contorna di “schiave”.
Il metodo di Prince fa riferimento alla pratica del “mettere insieme” che si usa per costruire il lay-out provvisorio delle riviste (ne offre una bella immagine il film Il diavolo veste Prada, mentre “Permanent Food” di Maurizio Cattelan e Paola Manfrin ne mostra una versione “rubata”). La stampa su tela, il collage rudimentale e l’intervento gestuale della pittura, che cancella per esaltare e dare sensi inediti, sono stumenti con cui Prince scrive la sua storia.
Quella un poco surreale, eroica e carnevalesca di “un tipo”, come spiega lo stesso Prince, “che sbarca dall’aereo a St. Barth e subito gli viene detto che c’è stato un olocausto nucleare nel resto del mondo. Così lui guarda la sua famiglia e dice ‘non possiamo tornare indietro’”. Prince riscrive a modo suo l’isola di Utopia di Tommaso Moro, impostando una versione caricaturale del perfetto sistema socio-politico sognato dal padre di tutte le utopie.
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nicola davide angerame
mostra visitata il 30 novembre 2008
dall’otto novembre al 20 dicembre 2008
Richard Prince – Canal Zone
Gagosian Gallery
555 West at 24th Street – New York, NY 10011
Orario: da martedì a sabato ore 10-18
Ingresso libero
Catalogo disponibile
Info: tel. +1 2127411111; fax +1 2127419611; newyork@gagosian.com; www.gagosian.com
[exibart]