Il titolo della mostra,
Canal Zone, si riferisce al luogo di nascita di
Richard Prince (Panama, 1949; vive a New York), una zona contraddistinta da una forte presenza statunitense in stile “colonialista”.
Decostruttore dell’immaginario eroico americano – il suo uomo Marlboro fu invitato da Francesco Bonami alla Biennale di Venezia -, Prince denuncia attraverso un ricercato mélange di citazioni e prelevamenti pop la situazione di un mondo, il proprio, segnato dall’assoggettamento della vita civile a un profondo razzismo e agli interessi di compagnie private.
Con un approccio che si pone ambiguamente a metà strada tra il goliardico e il sardonico, Prince riscrive la Storia, creando un eroe attorniato da “demoiselles” discinte, prelevate dalla stampa erotica vintage e “mascherate” attraverso un escamotage astratto-geometrico. Prince le stampa sulla tela, poi ne ricopre la bocca e gli occhi con piccole e semplici ellissi di colore bianco o giallo. Il suo eroe rastafariano, di colore e con lunghi dreadlock, domina la scena di tutte le opere in mostra, una quindicina. Il suo sguardo, i suoi muscoli e la sua pelle contrastano con le morbide, anonime carni della donna “da consumare” occidentale.
Prince non ammicca a Rousseau e all’idea del buon selvaggio. Il suo eroe è più come uno dei “
famous negro” di
Basquiat: un fiero capo tribale, un guerriero che si esprime attraverso la chitarra rock che sta spesso al suo fianco. In realtà, Prince gioca a ripetere la medesima immagine dello stesso uomo, uno scatto documentario che l’artista trasforma in narrazione, usando il tema del condottiero, che domina il paesaggio e si contorna di “schiave”.
Il metodo di Prince fa riferimento alla pratica del “mettere insieme” che si usa per costruire il lay-out provvisorio delle riviste (ne offre una bella immagine il film
Il diavolo veste Prada, mentre “Permanent Food” di
Maurizio Cattelan e Paola Manfrin ne mostra una versione “rubata”). La stampa su tela, il collage rudimentale e l’intervento gestuale della pittura, che cancella per esaltare e dare sensi inediti, sono stumenti con cui Prince scrive la sua storia.
Quella un poco surreale, eroica e carnevalesca di “un tipo”, come spiega lo stesso Prince, “
che sbarca dall’aereo a St. Barth e subito gli viene detto che c’è stato un olocausto nucleare nel resto del mondo. Così lui guarda la sua famiglia e dice ‘non possiamo tornare indietro’”. Prince riscrive a modo suo l’isola di
Utopia di Tommaso Moro, impostando una versione caricaturale del perfetto sistema socio-politico sognato dal padre di tutte le utopie.