Sulla scena scarna del suo “bunker” sulla Bowery, John Giorno appare come una visione da cinema muto. Ma è tutt’altro che muto. Con eccentrico dinoccolarsi, il poeta di origini lucane declama alcuni dei suoi versi più noti, in cui ci sono cani che mangiano polli i quali sono la reincarnazione dei loro nonni; ci sono gatti che guardano questi cani, che a loro volta sono la reincarnazione dei loro avi.
La terra è un concatenamento di spiriti e Giorno, seduto su una panchina di New York, ne è l’osservatore posto al centro di un personale panopticon. Mentre declama, il suo corpo segue, si snoda, sembra diviso in due, con le gambe piantate al suolo che oscillano, il busto che si apre e si chiude, le braccia che sembrano guidate da scosse elettriche: le parole.
Per dieci ore e sei minuti, Giorno si cita a memoria. Performa davanti alla cinepresa 16mm “apparecchiata” per lui da
Rirkrit Tiravanija (Buenos Aires, 1961; vive a New York, Berlino e Bangkok), artista di fama internazionale ed emblema di quell’estetica relazionale individuata da Nicolas Bourriaud in un saggio di dieci anni fa. La mostra presenta poco altro: una banconota da un dollaro con un intervento “antimaterialista”, una maglia di Giorno esposta come una reliquia e una scultura eseguita con capelli.
Le poesie continuano a fluire nella stanza creata appositamente dentro la galleria. Giorno è proiettato a grandezza naturale sulla parete di legno grezzo. Sembra uno spettro, uno “spiritello” divertito e dispettoso. Celebra la “
saggezza delle streghe” in un poema che dà il titolo a una raccolta di due anni fa, ispirata dalle camminate sui monti del Trentino. Narra di un albero che più lo abbatti più ricresce. Celebra l’amico William S. Burroughs, ricordando il giorno della sua morte come uno dei più belli, perché nel silenzio potè nutrirsi dell’anima del poeta.
“
Per risplendere devi bruciare” è uno dei suoi più celebri versi, che dà il titolo alla prima traduzione italiana di sue poesie. Ma lui non si è bruciato completamente. Con la respirazione appresa dal buddismo tibetano ha alimentato la sua pratica poetica dello
spoken word, la parola parlata, la poesia che si ascolta e non si legge. Un approccio performativo e musicale fondamentale per tutta la poesia pop e beat.
Nel 1963 Giorno dorme, e forse sogna, per
Andy Warhol, nel suo primo film intitolato
Sleep, della durata di sei ore. Ora, declama per Tiravanija. In mezzo ci sono 45 anni, in cui l’arte relazionale ha perso e ritrovato se stessa. Giorno ne è testimone e testimonial. Anche di una città, la New York di
Rauschenberg,
O’Hara,
Lichtenstein,
Cage e molti altri amici artisti, poeti e musicisti che, come dice Gavin Brown, “
esiste soltanto più come un’idea”.