Scientificità, completezza, godibilità raffinata: Lugano
non sbaglia un colpo e comincia a porsi come modello di gestione delle mostre
pubbliche anche per le nostre grandi città. Il discorso vale per entrambe le
esposizioni in corso in città, sia per quella sul ritratto contemporaneo al
Museo Cantonale, sia per
Corpo, automi, robot, divisa in due sedi.
Lo sforzo di quest’ultima, non agevole, è quello di
delineare la storia del millenario intreccio fra corpo umano e tecnologia, l’eterno
sogno di un uomo artificiale.
Villa Ciani ospita la sezione scientifica e storica, a
partire dall’antica Grecia, dove già esisteva il mito di Talos, gigante in
bronzo capace di incenerire i nemici. Il percorso che segue è dei più
esaltanti: l
e scoperte meccaniche e idrauliche degli arabi, le precorritrici
invenzioni di
Leonardo, le cere anatomiche del Settecento, fino alla grande stagione sette-ottocentesca
degli automi, stupendi gioiellini allo stesso tempo ingenui e modernissimi.
E l’ultima parte, quella sugli automi e robot
contemporanei, è un vero divertimento, dato che lo spettatore può azionarli e
che la tradizione dell’automa artistico non si è del tutto esaurita (fra i
contemporanei in mostra,
Junod e
Diana).
Il Museo d’Arte si concentra invece sull’arte
contemporanea, e anche qui la selezione è appropriata e di prima qualità.
Si parte dai futuristi, ottimisti a oltranza sulle
potenzialità dell’innesto tecnologia-uomo, e dai dadaisti, controparte
pessimista che affida alla sessualità il compito di una riumanizzazione. Anche
la creazione di un automa truffa è considerata dai curatori un gesto dadaista
ante
litteram, e così
il
Turco di ferro del barone von Kempelen, finto giocatore automatico di scacchi che ingannò lo zar
ed Edgar Allan Poe, troneggia accanto alle opere di
Duchamp e compagni.
La carrellata successiva racconta la crescente
preoccupazione suscitata dall’automatizzazione dell’uomo. Le opere di
Man
Ray,
Baj,
Manzoni,
Serrano,
Bourgeois,
Ontani,
Racheli, fra i tantissimi autori, gettano
in molti casi un’ombra nera sull’eterna aspirazione dell’uomo a sgravarsi dalle
fatiche quotidiane.
Il fatto di affidarsi a questo scopo a sostituti
artificiali porta ovviamente con sé il timore che questi prendano il posto dell’uomo,
oppure che l’uomo a sua volta si spersonalizzi, fino a diventare simile a un
robot.
In fondo, tutta la questione della fusione tra uomo e
macchina è di segno oscuro: la volontà di sgravarsi dalle fatiche è in ultima
analisi una freudiana volontà di morte, qualcosa che assomiglia molto da vicino
all’agognata “
requie dell’inorganico” descritta da Worringer nel suo
Astrazione e empatia (1908).
Il mito del robot ci parla precisamente di questo: dell’innata
volontà di liberarsi della
complessità, della necessità di scegliere tra le infinite
diramazioni fenomeniche della vita. Un desiderio che cresce sempre più man mano
che aumenta tale complessità, come nell’epoca postmoderna.