Con gli occhi all’insù per apprezzare al meglio il mirabolante edificio progettato da
Jacques Herzog e
Pierre de Meuron, si potrebbe iniziare la visita alla mostra delle due artiste in terra svizzera sfogliando il catalogo concepito ad hoc da
Monika Sosnowska (Ryki, 1972; vive a Varsavia). È una raccolta di fotografie e schizzi che la polacca ha realizzato a partire dal 2000 e che permettono di contestualizzare la sua opera monumentale e cementizia, nonché di evidenziarne l’“
interesse per la tradizione modernista nel design e nell’architettura, che è pure la base del modernismo in epoca comunista”, come scrive la curatrice Theodora Vischer.
Con maggior consapevolezza si guarderanno poi i lavori peculiarmente (im)praticabili (
Corridor, 2005/2008) e in scala
1:1 (2007/2008, visto al Padiglione della Polonia alla scorsa Biennale di Venezia) che occupano monumentalmente il piano interrato dello Schaulager. Nove in tutto, creati per l’occasione o adattati allo spazio espositivo, eccezion fatta per Untitled (2003), un sacchetto di carta contenente minuscole e abbozzate
maquette di abitazioni.
Ad accomunarli è la deformazione concettuale, spaziale, funzionale di
topoi letterali e metaforici che certo si possono ricollegare al modernismo, ma ben più indietro nel tempo pure alla geometria piana e alla fisica classica. Così un cubo d’acciaio si accartoccia, forzato da un risucchio inaudito (
Senza titolo, 2006/2008), oppure un soffitto evidentemente inutile è mostrato soltanto per dimostrare che i gravi continuano a cadere (
Rubble, 2006/2008). O che una sfera può non essere il solido perfetto, esibendo una bitorzoluta superficie in cemento, la cui armatura emerge disordinata e addirittura si allontana minacciosa verso le pareti dell’enorme sala (
Concrete Ball, 2008).
Dai coniugi
Hilla e
Bernd Becherrevisited al
mix up di anonimato e autobiografico – ch’è un po’ la condizione dell’uomo e della donna post-moderna, come insegna tanta letteratura contemporanea – proposto dalla californiana
Andrea Zittel (Escondido, 1965; vive a Los Angeles).
Anche in questo caso, un catalogo d’artista che raccoglie gouache e illustrazioni su legno col commento dell’artista. Lavori in due dimensioni che sono pure esposti nella prima parte della mostra, seguiti dalle concrezioni tridimensionali. Certo, resta valido il discorso ormai piuttosto ecolalico che non si tratta di preparazioni alle sculture e agli oggetti, bensì di opere a tutti gli effetti degne d’attenzione autonoma. Allo stesso modo, i commenti dell’artista non sono meri
statement, dato il noto interesse che riveste il linguaggio nel suo percorso creativo.
A dirla tutta, ciò che non convince appieno chi scrive è il lavoro di Andrea Zittel nel suo complesso. Poiché la tesi che qui si stia coniugando per l’ennesima volta il verbo dell’indistinzione – o, almeno, del confine sfumato – fra arte e realtà, scultura e architettura, arte e fashion design, illustrazione e cartellonistica comincia a perdere solidità e lucidità. E soprattutto è terribilmente noiosa.