A tre anni dall’ultima personale alla White Cube, ritorna a Londra Gregory Crewdson (New York, 1962) con una nuova serie di venti tableaux dedicati agli angoli oscuri della psicologia umana.
I riferimenti alla fotografia di Diane Arbus, ai dipinti di Edward Hopper e soprattutto al cinema di David Lynch sono stati ripetutamente evidenziati, ed è ormai leggendaria la sua metodologia di lavoro simile a una produzione cinematografica, con una post-produzione ossessiva nell’uso di tecniche digitali ed effetti speciali. I risultati più evidenti sono nella luce che traspare dai tableaux, crepuscolare e visionaria, con bagliori bluastri e colorazioni spettrali.
In un paesaggio anonimo fatto di abitazioni, prefabbricati e negozi da suburbia, strade semideserte e comuni camere da letto, personaggi del tutto anonimi sono colti in un attimo di intensa sospensione e immobilizzati in quello straniamento che lascia trasparire il dettaglio sconcertante. Uno stato improvviso d’ansia, il dubbio che apre varchi al dramma.
Attento osservatore degli aspetti più inquietanti del quotidiano, Crewdson –non a caso figlio di uno psichiatra- è bravissimo nel disseminare tracce di una narrazione che starà poi all’osservatore riscoprire e interpretare. Con questa mostra sembra tuttavia essersi fermato su storie che ripetono sé stesse, come nei numerosi specchi, quasi teatrali, costantemente utilizzati nella rappresentazione degli interni. E sono soprattutto gli interni a tradire un senso di decadente stanchezza: valigie appena aperte o appena chiuse, abiti e scarpe abbandonati sul pavimento, su una sedia, nel guardaroba, prodotti di bellezza accanto a medicinali e tranquillanti, la porta del bagno en-suite aperta a lasciare intravedere dettagli irrilevanti dell’interno. Nella ridondanza dei particolari di nessun peso, nell’immobilità ed impassibilità dei personaggi in abiti quotidiani, in sottoveste, oppure nudi, alcuni oggetti fuori contesto generano un sospetto, un punto interrogativo.
Come nell’auto ferma a un crocevia, con lo sportello del guidatore aperto ma nessuno alla guida e una donna sul sedile accanto, in primo piano l’insegna del Centre for Independent Living. Oppure nel profilo della donna incinta ad un semaforo, di fronte a un edificio che ospita il Pregnancy Centre insieme al Fidelity Hearing Aid Centre e il The Wreaks Communications Centre. O ancora nel profilo curvo dell’uomo anziano in mezzo a una strada bagnata, di fronte un’Oasi dei Liquori; alle sue spalle le vetrine di due negozi dai nomi ridicoli nel loro letterale simbolismo: “Shear Madness”, chiuso ma con una vistosa bandiera all’ingresso, e “Thrifty Bundle” -probabilmente una lavanderia- dove una donna si vede affaccendata a ripiegare panni puliti.
Altrove la minore drammaticità dei dettagli fuori posto lascia un senso di gratuità, come nel peregrinare sparso e silenzioso di alcuni giovani, in una casa deserta in fiamme, oppure nei tratti di ferrovia semi-abbandonata, ad indicare una qualche direzione. Attorno un paesaggio semi-urbano desolato.
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