Nel XVIII secolo lo storico inglese Edward Gibbon liquidò le vicende dell’Impero bizantino come un periodo di decadenza morale e intrighi politici. Lo stesso aggettivo “bizantino” è nel tempo divenuto sinonimo di tortuosa complessità.
Schiacciata tra gli splendori del mondo antico e le glorie del Rinascimento, in quella terra di nessuno che si chiama Medioevo, l’arte bizantina risente ancora oggi del peso di questi pregiudizi passati. Una fama negativa dura a morire. Ed è un peccato. Perché il contributo di Bisanzio alla civiltà europea fu immenso. L’imperatore Costantino prese due decisioni che cambiarono il mondo: pose fine alla persecuzione dei cristiani e fondò una nuova città, Costantinopoli, che divenne il simbolo stesso della civiltà bizantina.
La Royal Academy esamina le conseguenze di queste decisioni.
Un compito mastodontico. Perché raccontare undici secoli di storia (dalla fondazione di Costantinopoli nel 330 alla sua caduta nel 1453 per mano dei turchi ottomani di Maometto II) senza perdersi in interminabili elenchi visivi è difficile. Ma i curatori di
Byzantium 330-1453 ci sono riusciti, incastonando gli oltre trecento fragili tesori che compongono quest’eterea Bisanzio, trasportata per l’occasione nelle terre nebbiose della “perfida Albione”, in maneggevoli segmenti tematici in cui trovano posto avori raffinati e sfavillanti micromosaici, manoscritti miniati, santi austeri e dolci madonne e oggetti rari come la
Patena di Rhia (566-78), dove Cristo è rappresentato due volte.
Sacri o profani, creati per la casa o per la corte, questi oggetti sono accomunati dall’uso di materiali preziosi e da una tecnica che è essa stessa arte allo stato puro. Arte che abbraccia anche gli oggetti più prosaici, quelli quotidiani per intenderci, come le ceramiche, il cui disegno raffinato e la trattenuta eleganza delle forme sono così sorprendentemente moderni da apparire contemporanei.
Ma la vera anima di Bisanzio sta soprattutto nella forma d’arte che è divenuta il simbolo della Chiesa orientale: l’icona. E questa mostra non dimentica di esaminare quell’eredità di immagini che tanta importanza ha avuto nel dialogo con l’occidentale. Un’arte, quella bizantina che anche nelle sue forme più astratte non rinnega mai completamente le sue radici classiche. E in cui il naturalismo dell’antichità si evolve in un’arte religiosa che immobilizza il tempo.
Mille anni di declino? Guardando la splendida icona dell’
Arcangelo Michele (XII sec.) sottratta alla cappella di palazzo durante il Sacco di Costantinopoli nel 1204, nulla pare più lontano dalla tesi di Gibbon. Certo, possiamo interpretare questa composta calma come stasi, anche se forse sarebbe più giusto considerarla come il desiderio di continuità in un mondo che cambia troppo in fretta. E la Royal Academy lascia a noi la scelta.