Nella sua prima personale alla galleria Haunch of Venison di Londra, dal titolo enigmatico
How to disappear completely,
Rachel Howard (County Durham, 1969; vive a Londra) esplora la bellezza che nasce dalla tragedia del quotidiano.
Partendo da immagini trovate sfogliando i quotidiani e su internet, Howard analizza il significato della morte vissuta sia come esperienza personale che come immagine riportata dai media, attraverso un viaggio interiore intimo e delicato da lei stessa definito “
sollecitare l’inevitabile”. Il risultato è una serie di dipinti e studi preparatori in inchiostro nero che possiedono la stessa violenza emotiva di quelli di
Egon Schiele. Caratterizzate da forme umane inquietantemente sospese a corde tese -i visi oscurati, i corpi disintegrati dalla tecnica sapientemente “sbavata”- le figure che popolano questa prima serie di dipinti sono fermate sulla tela da una vernice patinata e lucida, che vibra di luce vitale. Uno stridente contrasto e una precaria e continua tensione è volutamente creata fra il tetro soggetto della morte e la vibrante materialità della pittura.
Nel catalogo che accompagna la mostra, il critico e scrittore Brian Dillon descrive l’opera di Rachel Howard come un
“
torrente verticale che sembra scorrere ininterrotto e inarrestabile da un dipinto all’altro, che si dissolve prima di raggiungere il fondo della tela solo per ricominciare dal bordo di un’altra”. Sia i corpi che la pittura sembrano essere attirati verso il basso dalla stessa forza di gravità. L’impressione generale è quella di un’eternità grandiosa quanto anonima, permanetemente cristallizzata nel suo farsi.
Al pianterreno, una serie di dipinti figurativi di piccole dimensioni rappresentano oggetti di uso domestico che, estrapolati dal loro contesto domestico, assumono un forte significato psicologico. Un paio di forbici, una scala si caricano di minacciosa ambiguità, diventano potenziali strumenti di autodistruzione. Allo stesso modo, l’immagine di un emaciato cane nero, spogliata di ogni istanza minacciosa, viene elevata a patetica icona di moderna fragilità e solitudine. In queste opere, l’indagine sul suicidio portata avanti da Howard va oltre la pura figuratività, sconfinando nelle regioni della metafora, del simbolismo e dell’allusione: il cane nero è infatti tradizionalmente associato a immagini di depressione. Lo stesso Churchill aveva descritto la malattia che lo accompagnò per gran parte della sua vita come “
un ‘cane nero’, sempre in agguato, che ti assale alle spalle”.
A impedire che la mostra scivoli in un malinconico grigiore, cinque dipinti astratti di largo formato esposti al piano superiore costituiscono una inaspettata sorpresa. Sostenuti da una complessa architettura di linee intrecciate in orizzontale e verticale e dotati di una di un’abbagliante luminosità, presentano strati di pittura stesi con gravità e precisione.
Dopo tanto nero, la chiarezza del giallo, la profondità del fucsia, la giocondità del verde e del rosso sono per l’occhio un confortante sollievo. Liberati dagli ultimi legami figurativi, i temi del suicidio e della sparizione del corpo sono così, paradossalmente, elevati al reame della metafisica. Ironicamente denominati
Suicide paintings, a dispetto del titolo proprio queste ultime opere traboccano di gioiosa vitalità.