Bischofberger affianca la retrospettiva di Lugano dedicata a Jean-Michel Basquiat con una personale dell’artista newyorkese che raccoglie quattordici opere dipinte tra l’80 e l’82. La mostra rischierebbe di non aggiungere nulla, se non fosse per alcune circostanze che ne fanno un appuntamento da non mancare.
Primo: le opere sono inedite, o quasi, e Bischofberger ci tiene a precisarlo. Tra queste ci sono alcuni dei dipinti che comprò direttamente da Basquiat, durante i primi incontri, conservati gelosamente per anni. Tra quelle quasi-inedite ve ne sono alcune viste due volte sole in venticinque anni e ancora meno nei cataloghi.
Secondo: Bischofberger é senza dubbio la voce piú autorevole al riguardo. Basquiat nasce dal lavoro congiunto del critico Rene Ricard, dei galleristi Annina Nosei e Tony Shafrazi, e dello stesso Bischofberger Ma solo il gallerista zurighese, dopo averne seguito i primi passi, seppe guidarne i successivi insieme a Warhol verso il sistema delle gallerie.
Terzo: qui siamo lontani dalle luci del mainstream. Qui non c’é e non entra quel Basquiat spinto dai mass-media che ne hanno stirato e arzigogolato talmente l’immagine da completarne a tempo record il processo di mitizzazione (“Saint Jean Michel”, come recitava l’Arts Magazine a un anno dalla sua morte). Ci sono, piuttosto quelle prime opere che animarono l’interesse di galleristi e artisti della New York degli ’80, e che da nessun’altra parte potremo mai vedere.
Di motivi ce ne sarebbero altri, ma il più forte é l’immagine fresca che queste opere danno di un ragazzo appena ventenne, forse troppo ingenuo nel lasciarsi inghiottire da un meccanismo più grande di lui.
Basquiat fu lanciato come un razzo e dalla sua ascesa irrefrenabile tutti cercarono un passaggio, persino l’allora astro nascente Madonna. Fu un’icona pop per eccellenza, il massimo a cui la teoria warholiana avrebbe mai potuto aspirare: una Zuppa Campbell vivente. Di lui si commercializzò tutto, persino il tempo, che veniva venduto in misura di ore passate nello scantinato a dipingere tele.
L’attenzione intorno al giovane talento si fa talmente avida che nel 1985 il New York Times gli dedica una copertina: “Arte Nuova, Nuovi Soldi: il Marketing di un artista Americano”, sottolineando lo sfruttamento perpetrato a scapito di un artista fragile, presto divenuto schiavo di quella droga che lo uccise nel 1988, a soli 28 anni. Da quel momento in poi, le sorti e l’immagine di Basquiat seguono le regole del mercato, come prevede Galligan su Art International all’indomani della morte: “More Post-Mortem than Primitive” (1988).
A tutt’oggi ci si divide ancora tra chi ne vorrebbe concludere le esequie ( “Just how good was J.M. Basquiat?” , Art Newspaper, 1996) e chi ne rianima disperatamente l’effige ( “Basquiat Superstar” , Beaux Arts Magazine, 1996). Tra chi ne compiange il talento e la genuinità e chi ne ricava icone da t-shirt. Per chi crede all’opera dell’artista e non ai miti dell’era del rock, il passaggio in galleria é d’obbligo.
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fabio antonio capitanio
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