Pose angolose, corpi esangui
devastati da ferite di allucinante realismo: decisamente
The Sacred Made
Real: Spanish Painting and Sculpture 1600–1700 non è per i deboli di stomaco.
Poche le opere in mostra: solo
sedici dipinti dell’epoca d’oro della pittura spagnola, esibiti per la prima
volta accanto ad altrettante sculture policrome contemporanee. Perché se i nomi
di
Diego Velázquez, Jusepe de Ribera e Francisco de Zurbarán
sono famosi ovunque al di fuori
della Spagna, lo stesso non si può dire degli autori delle iperrealistiche
sculture policrome che li hanno ispirati: Juan Martínez Montañes,
Juan de
Mesa e
Pedro
de Mena.
Il pubblico si muove in punta di
piedi nel seminterrato della National Gallery, tra le sculture sapientemente
illuminate, come in una chiesa. Mancano solo le candele e l’incenso. Ma anche
senza di essi, l’odore che si respira negli spazi in penombra della Sainbury
Wing è quello di santità e misticismo fatto materia.
E questa materia è il legno. Come
quello con cui è realizzato il
Cristo sulla croce (1617) di
Juan Martínez
Montañes, esposto
accanto all’imponente
Crocifissione (1627) di
Zurbarán. E come nella scultura, anche sulla tela il corpo
del Cristo crocefisso emerge dall’oscurità nello spazio dell’osservatore,
spogliato d’ogni dettaglio narrativo. Immagine o scultura? Come Montañes, anche
Zurbarán porta l’iperrealismo a un nuovo livello: dimostrare che esiste uno
stretto dialogo tra pittori e scultori.
A differenza dell’Italia, dove la
fine del Concilio di Trento impone una severa disciplina alla rappresentazione delle
immagini sacre, in Spagna – fatta eccezione per i ritratti degli aristocratici
– l’arte della Controriforma è fondamentalmente religiosa. Un’arte in cui le
figure del Cristo e dei santi sono rappresentate sanguinanti e sofferenti, e il
cui sconcertante realismo è fatto per muovere e commuovere, ispirare
pietas e devozione.
Perché, oggi come ieri, per coloro
che vi si inginocchiavano davanti nelle chiese o che le seguivano durante le
processioni de la
Semana Santa e che ancora lo fanno, queste non sono opere d’arte (o
perlomeno non solo), ma immagini vere di persone vere con veri poteri
miracolosi. E il corpo abbandonato del
Cristo morto (1625–30) di
Gregorio
Fernández – gli
occhi socchiusi, vitrei di morte, ombreggiati da ciglia di crine, le mani
affusolate, la bocca socchiusa dai denti di avorio – è così incredibilmente
reale che a stento si domina l’impulso di gettarsi in ginocchio battendosi il
petto esclamando “
mea culpa”…
Qui non c’è posto per il dibattito
tra classicismo e barocco: ispirati dagli
Esercizi spirituali di Sant’Ignazio di Loyola, gli
artisti spagnoli producono un’arte di straordinario fervore il cui scopo non è
appagare il gusto estetico di qualche ricco collezionista, ma scuotere la
sensibilità umana, emozionare, commuovere. E il risultato sono sculture che
saltano a piè pari il Rinascimento per attingere a piene mani alla fonte del
Gotico nordeuropeo, che tanta influenza ha nella Spagna asburgica del secolo
d’oro.
E bisogna ammirare il coraggio del
curatore Xavier Bray per aver dato vita a una mostra come questa. Perché
The
Sacred Made Real è allo stesso tempo una sfida alla nozione generale di “buon gusto” e un invito
al pubblico a superare pregiudizi secolari sulla scultura policroma. E una
volta dimenticato il crudo realismo delle ferite, l’anatomia michelangiolesca
di questi corpi emerge in tutta la sua potenza. E la bellezza è tanta che quasi
si grida al miracolo.