Dal 30 agosto 2005 il Superdome di New Orleans raccolse decine di migliaia di sfollati in seguito alle devastazioni causate dall’uragano Katrina, trasformandosi da tempio del football americano in un’icona di caos e sofferenza. È da questo suo status ambivalente, come trait d’union di divertimento e afflizione, che prende spunto la sessione di cinque mostre personali al Palais de Tokyo, per seguire percorsi autonomi ma in parte convergenti.
Dump di
Cristoph Büchel richiama più direttamente la devastazione delle case di New Orleans ridotte a macerie. Sotto di una montagna di rifiuti, l’artista svizzero ricava possibilità abitative per un’umanità misera e disperata. Le stanze si articolano su due piani, in un dedalo di locali angusti, tutti integralmente costituiti da rifiuti e adibiti alle funzioni più varie -stanze da letto, un ufficio, una cappella, una scuola- dando vita a un percorso che culmina con un ampio salone delle feste, dove risuona un’
Internazionale commovente e solitaria.
Un nucleo più consistente di opere ruota intorno a uno stato d’inquietudine.
Last manoeuvres in the Dark di
Fabien Giraud e
Raphaël Siboni crea un minaccioso esercito di terracotta costituito da oltre trecento maschere di Darth Vader. Ciascuna maschera è dotata di un processore e collegata a un computer, in cui vengono rielaborati i diversi impulsi, producendo sulla scorta di un campionario di duecento canzoni una propria colonna sonora, una hit del male che fa da sfondo all’intera mostra.
La tensione è protagonista anche nell’opera di
Daniel Firman.
Würsa è un elefante in verticale sulla proboscide. L’impossibile equilibrio della scultura iper-realista, ipotizzabile a 18 mila chilometri dalla Terra, disattende l’esperienza e riesce a occupare l’intero spazio che la ospita, caricando di stupore e disagio lo spettatore.
Afasia I di
Arcangelo Sassolino è una grande pistola ad aria compressa collegata a sedici bombole di nitrogeno che scaglia bottiglie vuote di birra a 600 km/h contro una lastra metallica, mandandole in frantumi. Come nelle sue opere precedenti, l’artista vicentino crea uno stato di tensione fra le cose. In questo caso, trasferendolo nell’aspettativa dell’osservatore, attraverso i lunghi intervalli tra uno sparo e l’altro. Gli spettatori rimangono in silenzio, ammutoliti, concentrati nell’attesa di un evento che incombe ma che sembra non arrivare mai. Poi, la deflagrazione. Improvvisa, che coglie gli spettatori impreparati, facendoli letteralmente sobbalzare. Anche quando sono ormai intenti a osservare le altre opere in mostra.
Il tempo è protagonista di
Time between Spaces di
Jonathan Monk, riflettendo, con le consuete citazioni e riconcettualizzazioni di opere del passato, sulle sue declinazioni spaziali, attraverso vecchi orologi a pendolo, puzzle, specchi e ricetrasmittenti. Le opere si collocano in due edifici distinti ma specularmente identici, come avviene ad esempio per i due dipinti che riportano la piscina del Bigger Spash di
David Hockney alla quiete successiva e precedente il tuffo. Si realizza così una sorta di stereofonia espositiva, che lascia che le opere si richiamino da un luogo all’altro, approfondendo il proprio significato e giocando con la memoria degli spettatori.