Political/Minimal è una mostra importante, e non solo per il numero incredibile di personalità del mondo dell’arte che sono andate ad abbuffarsi al vernissage, o perché tira le somme di alcuni temi che il curatore, Klaus Biesenbach, aveva già trattato anni fa. L’aspetto più affascinante della rassegna, già
in nuce nel titolo, sta nei propri limiti.
Sono passati i tempi in cui un cubo poteva essere rivoluzionario e gli artisti minimalisti si arrabbiavano perché i critici vedevano trascendenza e bisogno di universalità nella loro arte. Ora questo rischio non c’è più e il minimalismo è stato assorbito, insieme alla sua importanza, nella confortevole legittimità della storia dell’arte, come anche i successivi movimenti antagonisti che, ciascuno a suo modo, hanno cercato di restituire vigore a quella metafora che
Donald Judd e soci avevano ucciso.
Perfetta allegoria della condizione postmoderna, l’arte contemporanea ha cercato di reagire a più riprese al freddo e ironico distacco della propria autocoscienza linguistica, e di tanto in tanto sono emerse tendenze volte a scalzare l’opera d’arte dal suo guscio di coerenza semiotica, per riportarla a una sana dialettica. Con mezzi sempre diversi, si è provato a ristabilire quel “
legame tra uomo e mondo” che, secondo Gilles Deleuze, il Novecento ha visto scomparire.
La formula
Political/Minimal è una combinazione estremamente efficace nel declinare la dialettica messaggio/forma, sicuramente molto più seducente rispetto ai freddi statement e alla più raffinata pratica di
ad-busting figurativa. Le opere appaiono spesso come oggetti di design, ma intendono emanciparsi da un linguaggio autoreferenziale, ironico, distaccato, e per questo connivente con il “male”. Hanno quindi una doppia velocità: possono essere solo percepite o raccontare una storia, lanciare un appello.
Ma se, per lo spettatore a digiuno d’arte contemporanea, il minimalismo può essere troppo oscuro, per quello smaliziato la vita degli oggetti politicizzati in mostra lo è altrettanto. In parole povere, per capire il feto incementato di
Teresa Margolles o l’opera di
Sarah Ortmeyer sulla riunificazione della Germania ci vogliono comunque delle didascalie. Lo stesso vale per l’opera di
Santiago Sierra, la foto di un campo con 3mila buche scavate da lavoratori africani sottopagati.
Questo dettaglio sembra non essere sfuggito allo
xurban_collective, che presenta
The Containment Contained (2003-07) con una spiegazione stampata sulla parete vicina, ma in lettere così chiare da risultare difficilmente leggibili. Se
Har Megiddo (2008), il monumentale cerchio nero di mosche morte di
Damien Hirst, e le minacciose opere di
Adel Abdessemed o
Monica Bonvicini riescono comunque a sintetizzare un’esperienza fisica con un messaggio variamente interpretabile, senza bisogno d’altro, il collettivo svela uno dei punti deboli non solo della mostra, ma dell’arte stessa.
La perfezione formale è incompatibile con la politica, perché scavalca i compromessi linguistici relegandoli a commento, ad accessorio esterno.
Political/Minimal sconfigge e arriva
quasi a rendere superfluo il compromesso espressivo a cui l’arte politica è sempre scesa, adottando i linguaggi dei media. Invece di andarle incontro, l’opera risucchia la politica dentro di sé.