Un giovane uomo dalla folta capigliatura nera e dallo sguardo volitivo scruta il mondo attraverso la lente della macchina fotografica: è
Robert Capa (Budapest, 1913 – Thai-Bin, 1954). Nato da una famiglia ebrea non ortodossa, il suo nome è ancora Endre Friedmann quando, nel 1932 – accusato di attività sovversiva dal governo di estrema destra – fugge a Berlino, dove diventa fotografo. Ma la sua vita è destinata a cambiare quando, nel 1934, incontra a Parigi l’ebrea polacca Gerda Pohorylle. Insieme inventano il personaggio “Robert Capa”, fantomatico fotografo americano. E lei diventa
Gerda Taro (Stoccarda, 1910 – Brunete, 1937). Giovani, belli e ambiziosi, nel 1936 i due si spostano in Spagna, incaricati dalla rivista francese “Vu” di documentare la Guerra civile, eccitati da quella lotta appassionata, di cui condividono l’ideale libertario.
Fedele al motto “
se le tue foto non sono abbastanza buone è perché non sei abbastanza vicino”, Capa segue i soldati repubblicani al fronte, armato della sua Leica. Sono foto emozionanti quelle che scatta a Cerro Muriano, vicino a Cordova, cariche di potente intimità. Tra queste, la più famosa è
The falling Soldier (1936), raffigurante un soldato dell’esercito repubblicano colpito a morte da un proiettile franchista. L’immagine, una delle più controverse del fotogiornalismo moderno (è davvero un soldato? è una messa in scena?), lo rende famoso in tutto il mondo, diventando il simbolo della Guerra civile spagnola e della precarietà della vita.
Anche per questo forse Capa chiede a Gerda di sposarlo, ma lei rifiuta, votata ormai solo alla causa repubblicana. E muore nel 1937, vicino a Brunete, durante una battaglia, schiacciata da un carro armato a soli ventisei anni. La notizia raggiunge Capa in Cina, dove nel 1938 si trova a fotografare la resistenza contro l’invasione giapponese. Nonostante la limitata libertà di cui gode, Capa riesce ugualmente a realizzare alcune potenti foto come
Boy soldier (1938), che diventa l’iconica copertina del numero di maggio di “Life”.
Lo scoppio del secondo conflitto mondiale lo trova ancora una volta in prima linea. Il 6 giugno 1944 partecipa al D-Day, fotografando il sanguinoso sbarco del contingente americano a Omaha Beach, in Normandia. Scatta per un’ora e mezza, consumando i quattro rullini di pellicola che ha con sé. Poi scappa, senza sapere che ha rischiato la vita per nulla, in quanto una volta a Londra la maggior parte delle sue foto va perduta per un errore di sviluppo. Si salvano solo una decina di fotogrammi. E queste foto sgranate, sfocate (effetto ottenuto scuotendo leggermente la macchina fotografica) di soldati che strisciano nell’acqua trasmettono la terribile drammaticità e l’orrore eccitato della battaglia. Ma il destino di Capa è cadere sul campo. E lo fa con la macchina fotografica alla mano, in Indocina nel 1954, per una mina antiuomo.
Nella sua breve vita, la stessa Gerda Taro è una fotografa di successo, ma la sua storia, al contrario di quella di Capa, è meno nota. Questa del Barbican è la prima retrospettiva dedicata al suo lavoro. La leggenda la vuole pupilla di Capa, ma nell’intensità psicologica l’allieva supera il maestro. Nel ‘36 scatta forse la sua foto più famosa: una donna-soldato ripresa di profilo sulla spiaggia, un ginocchio sul terreno, lo sguardo determinato nell’atto di prendere la mira, piccola figura dolce e forte, simbolo di bellezza e libertà.
Se lui ha il coraggio, lei ha la sensibilità. E la dimostra nell’inconsueta resa della luce e nelle prospettive improvvise che ricordano fotografi dell’avanguardia come
Alexander Rodchenko. Le due sale dedicate a Taro rivelano che il fronte non è solo guerra e morte, ma è fatto anche di soldati che suonano e bambini che giocano. Trasformata dall’oblio del tempo in poco più di una parentesi nella grande avventura di Capa, con questa mostra Taro finalmente riceve l’omaggio dovuto.