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18
dicembre 2008
fino al 25.I.2009 William Eggleston New York, Whitney Museum
around
Oltre 150 scatti, anche inediti. Finestre affacciate su cinquant’anni di America, su cinquant’anni di quotidianità. Una fonte d’ispirazione continua per fotografi e registi come Gus Van Sant e Sofia Coppola. Una rivoluzione, quella del colore nella foto d’arte...
Oggi le fotografie di William Eggleston (Memphis, 1939) possono colpire per la loro natura anti-aulica alla Robert Frank e per la democratica rappresentanza del brutto, del banale, del quotidiano. Possono coinvolgere per le loro prospettive angolari, che trasportano chi le guarda lungo le strade del paesaggio americano per eccellenza, come frame cinematografici in bilico tra stasi e movimento.
Ma quello che davvero va considerato, quando le si osserva, è la portata rivoluzionaria dell’innovazione artistica per gli anni ‘70, quando la fotografia a colori era considerata poco più che un secondario supporto alla pubblicità e il bianco e nero regnava sovrano. È essenziale focalizzare l’attenzione sul coraggio e l’estro sperimentale di questa scelta, che ha stimolato l’allora sensibile e lungimirante direttore del dipartimento di fotografia del MoMA, John Szarkowski (che non a caso amava i lavori di Winogrand, Freelander e Arbus), a battersi affinché venisse compreso. Il “New York Times”, nel 1976, definì la mostra – accompagnata dal dibattuto catalogo William Eggleston’s Guide – così: “Perfect? Perfect banal, perhaps. Perfectly boring, certainly”.
Quello che oggi può sembrare interessante, intenso e commovente, allora fu qualcosa capace di “dividere”. Con questi occhi vale la pena di attraversare le sale del museo e farsi condurre, attraverso gli anonimi supermercati, le stazioni di servizio dell’America del Sud e i volti dei suoi famigliari e amici (serie dal 1968 al 1972), comparando gli esiti sorprendenti della sua acerba conquista del colore con i primi scatti degli anni ‘60 (in bianco e nero), cercando di cogliere la portata di questa sfida.
Con la serie 14 Pictures si può apprezzare l’uso della dye transfer print, tecnica che Eggleston recupera dagli anni ’40 e che sviluppa per saturare i contrasti, facendo di ogni colore una forma autonoma nella composizione. A seguire, Los Alamos (1965-68 e 1972-74), serie finanziata con una borsa di studio del Guggenheim, sintesi perfetta in 72 immagini dell’assoluta anticonvenzionalità del suo stile.
Si riscontrano poi i colori sgargianti degli anni ’80 nella serie Graceland, realizzata nella residenza di Elvis, che introduce il più ampio progetto Democratic Forest (1983-86), dove a un tempismo alla Cartier Bresson unisce un approccio spontaneo verso la realtà a cui risponde non con un modello sociologico, ma con il semplice racconto dei suoi pregi e degenerazioni (di qui l’appellativo di “democratic camera”).
Infine è doveroso citare, tralasciando i lavori del nuovo millennio che non sembrano essere all’altezza dei precedenti, i video Stranded in Canton, girati in case di amici e bar notturni. Un’occasione unica per esplorare quel contesto di subcultura autentica entro cui opera questo eclettico personaggio.
Ma quello che davvero va considerato, quando le si osserva, è la portata rivoluzionaria dell’innovazione artistica per gli anni ‘70, quando la fotografia a colori era considerata poco più che un secondario supporto alla pubblicità e il bianco e nero regnava sovrano. È essenziale focalizzare l’attenzione sul coraggio e l’estro sperimentale di questa scelta, che ha stimolato l’allora sensibile e lungimirante direttore del dipartimento di fotografia del MoMA, John Szarkowski (che non a caso amava i lavori di Winogrand, Freelander e Arbus), a battersi affinché venisse compreso. Il “New York Times”, nel 1976, definì la mostra – accompagnata dal dibattuto catalogo William Eggleston’s Guide – così: “Perfect? Perfect banal, perhaps. Perfectly boring, certainly”.
Quello che oggi può sembrare interessante, intenso e commovente, allora fu qualcosa capace di “dividere”. Con questi occhi vale la pena di attraversare le sale del museo e farsi condurre, attraverso gli anonimi supermercati, le stazioni di servizio dell’America del Sud e i volti dei suoi famigliari e amici (serie dal 1968 al 1972), comparando gli esiti sorprendenti della sua acerba conquista del colore con i primi scatti degli anni ‘60 (in bianco e nero), cercando di cogliere la portata di questa sfida.
Con la serie 14 Pictures si può apprezzare l’uso della dye transfer print, tecnica che Eggleston recupera dagli anni ’40 e che sviluppa per saturare i contrasti, facendo di ogni colore una forma autonoma nella composizione. A seguire, Los Alamos (1965-68 e 1972-74), serie finanziata con una borsa di studio del Guggenheim, sintesi perfetta in 72 immagini dell’assoluta anticonvenzionalità del suo stile.
Si riscontrano poi i colori sgargianti degli anni ’80 nella serie Graceland, realizzata nella residenza di Elvis, che introduce il più ampio progetto Democratic Forest (1983-86), dove a un tempismo alla Cartier Bresson unisce un approccio spontaneo verso la realtà a cui risponde non con un modello sociologico, ma con il semplice racconto dei suoi pregi e degenerazioni (di qui l’appellativo di “democratic camera”).
Infine è doveroso citare, tralasciando i lavori del nuovo millennio che non sembrano essere all’altezza dei precedenti, i video Stranded in Canton, girati in case di amici e bar notturni. Un’occasione unica per esplorare quel contesto di subcultura autentica entro cui opera questo eclettico personaggio.
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dal 7 novembre 2008 al 25 gennaio 2009
William Eggleston – Democratic Camera, Photographs and video, 1961-2008
a cura di Elisabeth Sussman e Thomas Weski
Whitney Museum of American Art
945 Madison Avenue at 75th Street – New York NY 10021
Orario: mercoledì e giovedì ore 11–18; venerdì ore 13–21 (dalle 18 alle 21 si paga su offerta libera); sabato e domenica ore 11–18
Ingresso: intero $ 15; ridotto $ 10; il venerdì ore 18-21 a offerta libera
Catalogo Yale University Press
Info: tel. +1 2125703633; www.whitney.org
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