Oggi le fotografie di
William Eggleston (Memphis, 1939) possono colpire per la loro natura anti-aulica alla
Robert Frank e per la democratica rappresentanza del brutto, del banale, del quotidiano. Possono coinvolgere per le loro prospettive angolari, che trasportano chi le guarda lungo le strade del paesaggio americano per eccellenza, come frame cinematografici in bilico tra stasi e movimento.
Ma quello che davvero va considerato, quando le si osserva, è la portata rivoluzionaria dell’innovazione artistica per gli anni ‘70, quando la fotografia a colori era considerata poco più che un secondario supporto alla pubblicità e il bianco e nero regnava sovrano. È essenziale focalizzare l’attenzione sul coraggio e l’estro sperimentale di questa scelta, che ha stimolato l’allora sensibile e lungimirante direttore del dipartimento di fotografia del MoMA, John Szarkowski (che non a caso amava i lavori di
Winogrand,
Freelander e
Arbus), a battersi affinché venisse compreso.
Il “New York Times”, nel 1976, definì la mostra – accompagnata dal dibattuto catalogo
William Eggleston’s Guide – così: “
Perfect? Perfect banal, perhaps. Perfectly boring, certainly”.
Quello che oggi può sembrare interessante, intenso e commovente, allora fu qualcosa capace di “dividere”. Con questi occhi vale la pena di attraversare le sale del museo e farsi condurre, attraverso gli anonimi supermercati, le stazioni di servizio dell’America del Sud e i volti dei suoi famigliari e amici (serie dal 1968 al 1972), comparando gli esiti sorprendenti della sua acerba conquista del colore con i primi scatti degli anni ‘60 (in bianco e nero), cercando di cogliere la portata di questa sfida.
Con la serie
14 Pictures si può apprezzare l’uso della
dye transfer print, tecnica che Eggleston recupera dagli anni ’40 e che sviluppa per saturare i contrasti, facendo di ogni colore una forma autonoma nella composizione. A seguire,
Los Alamos (1965-68 e 1972-74), serie finanziata con una borsa di studio del Guggenheim, sintesi perfetta in 72 immagini dell’assoluta anticonvenzionalità del suo stile.
Si riscontrano poi i colori sgargianti degli anni ’80 nella serie
Graceland, realizzata nella residenza di Elvis, che introduce il più ampio progetto
Democratic Forest (1983-86), dove a un tempismo alla
Cartier Bresson unisce un approccio spontaneo verso la realtà a cui risponde non con un modello sociologico, ma con il semplice racconto dei suoi pregi e degenerazioni (di qui l’appellativo di “
democratic camera”).
Infine è doveroso citare, tralasciando i lavori del nuovo millennio che non sembrano essere all’altezza dei precedenti, i video
Stranded in Canton, girati in case di amici e bar notturni. Un’occasione unica per esplorare quel contesto di subcultura autentica entro cui opera questo eclettico personaggio.