In matematica, un’equazione è un’uguaglianza tra due espressioni contenenti una o più variabili incognite. Variabili e incognite sono due buoni punti di partenza per riparlare di Iraq: chi è, da dove viene, dove va? Sorry mr. Dylan, ma il vento che porta la risposta, questa volta è un vento di guerra, sembra lamentarsi Saadi Youssef (Bassora, 1934), uno dei più importanti poeti contemporanei in lingua araba, fervido interlocutore della tradizione letteraria occidentale e guru di questo folto gruppo (una ventina) di artisti iracheni ospiti alla Fundació Tàpies di Barcellona. Tutti con una caratteristica comune: aver abbandonato la terra natìa. Gli artisti vivono all’estero dunque, ma le opere sono prodotte in Iraq, e sono frutto di continui viaggi dentro e fuori il Paese, a testimoniare che il contatto con l’attualità c’è, esiste, e ne esce rinforzato da questo doppio punto di vista.
Arte e politica, quindi, ma ripartendo dal senso etimologico del termine. La polis come collettivo, cittadinanza. Persone. Perché i fatti storici, prima di diventare storici, sono innanzitutto fatti personali. E allora forse la costruzione del futuro della nazione parte proprio dalla ricostruzione del passato dei singoli. Il passato perduto nel candido corto d’animazione (smarrita l’anima di un Paese, ci consoliamo con l’anima degli oggetti?) di Talal Refit (Kirkuk, 1957), che sfoggia il significativo titolo di Epilog.
Gli anni scorrono, le fotografie anche (meritano una lunga sosta i biancoeneri di Selim Lucien, Mossul, 1929), a testimoniare tratti anglosassoni nella fisionomia ancora giovane dell’Iraq anni Trenta, e ora coperta di rughe, di macerie, e di incongruenze.
Ne sanno qualcosa Samir (Baghdad, 1955), che con il lungometraggio Forget Baghdad (premiato a Locarno nel 2002) mette a nudo le ferite aperte dell’emigrazione degli esuli politici iracheni in Israele. E Al-Janabi (Baghdad, 1955), che segue a Londra l’esilio di Nahida Rammah, attrice di culto nell’Iraq pre-dittatura, nel documentario Wasteland.
Terra desolata. E desolante: l’allontanamento degli artisti da un Paese è sempre una piaga peggiore di quanto si creda. Perché se non c’è arte non c’è critica. E se non c’è critica, non c’è giudizio. Né capacità di scelta. Equazioni e (presunti) sillogismi. Ma tirando le somme il fine ultimo del progetto -perché L’equació iraquiana non si vuole definire come una ‘esposizione d’arte contemporanea irachena’, bensì come una piattaforma informativa, un luogo di dibattito e di dialogo tra artisti e pubblico- è proprio questo: rimettere in gioco la visione dei fatti, attraverso una prospettiva più obiettiva.
Dominano schermi e proiezioni, a denunciare che se da un lato è vero che quello in Iraq è stato il primo conflitto della storia a farsi raccontare in diretta televisiva, dall’altro è anche vero che la televisione ha ritratto un po’ quello che più le ha fatto comodo. Ad esempio dichiarando la fine di una guerra che non è affatto terminata; gettare un occhio a 16 Hours in Baghdad, di Tariq Hashim (Baghdad, 1960), per credere. La verità obiettiva, la verità dell’obiettivo: che sia questa la soluzione dell’equazione? Giusto per vedere se i conti tornano. E se davvero la matematica non è un’opinione.
davide carnevali
mostra visitata il 27 aprile 2006
Le installazioni digitali di Stefano Simontacchi illuminano i ledwall di cinque zone di Milano: un invito a riconnettersi con se…
La Galleria Nazionale d’Arte Moderna recupera il suo storico acronimo, aggiungendo una C per la contemporaneità: così la direttrice Mazzantini…
La galleria milanese Raffaella Cortese ospita due mostre dedicate a Yael Bartana e Simone Forti, entrambe protagoniste dell’ultima Biennale di…
35 scatti di 12 fotografi dell’Agenzia Magnum, da Martin Parr a Ferdinando Scianna, per raccontare una Puglia tanto mitica quanto…
Tre giorni di performance, laboratori e progetti d’arte contemporanea per i 200 anni del Museo Egizio di Torino, con una…
Nel corso della mia attività ho sentito spesso il bisogno di esprimermi in merito a quanto mi stava accadendo attorno.
Visualizza commenti
"artisti e Pubblico"...pardon
Molto bene, perchè un'autentica operazione artistica e culturale, come dice qui Davide Carnevali, dovrebbe mettere in contatto proprio "artisti e supplico"(nell'intimo aggiungerei). Troppe gallerie, musei e tanti spazi espositivi non danno garanzie su quest’autenticità, troppi filtri, troppi interessi producono dialoghi cancerosi, inquinati. l'enorme materiale video e fotografico da me ripreso (e archiviato) quattro mesi prima della guerra a Baghdad, tra gallerie, enormi musei di "partito", mi portano spesso a riflettere sull'oscurantismo politico di molti paesi del mondo e non poco poi, sulla similitudine della dittatura sottile imposta dal nostro entourage artistico occidentale. In fondo anche Picasso...nascose "les demoiselles d'avignon".
Prima di domandarmi cosa sia la democrazia...sto cercando di capire cosa sia la libertà.