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07
ottobre 2009
fino al 25.X.2009 3rd Moscow Biennale of Contemporary Art Moscow, The Garage
around
Soltanto un mese di durata. Ma una molteplicità di progetti ed eventi. Siamo andati a Mosca per la terza edizione della locale Biennale. Dove il curatore principale è Jean-Hubert Martin, ben noto in Italia. Contro l’esclusione, il cuore della mostra si trova in un “garage”. Dove non si cede alla facile retorica altermodialista...
Non è tempo di sintesi; è tempo di analisi. Non ci si
aspetti dunque che questa Biennale tracci le linee di demarcazione tra nuove
grandi correnti artistiche o che imponga la tirannia di un tema alla libertà di
ricerca degli artisti. È chiaro Jean-Hubert Martin nell’indicare le linee-guida
della sua Biennale moscovita, che non è un’enorme collettiva consacrata al tema
della lotta all’esclusione con un radicato fondamento politico e sociale, come
il titolo Against Exclusion faceva pensare.
A non essere esclusa dalla sua attenta ricognizione e
dall’ampia selezione è soprattutto la molteplicità eterogenea del fare arte nel
nostro tempo: negli 8500 metri quadrati del Garage (il centro di cultura
contemporanea aperto lo scorso anno da Dasha Zhukova, nota alle cronache
soprattutto come fidanzata del magnate Abramovich), artisti provenienti da
angoli remoti del pianeta, spesso del tutto all’oscuro dell’esistenza stessa di
un mercato dell’arte, e giovani la cui biografia non va oltre le tre righe balzano
in primo piano accanto ai protagonisti dello star-system, confinati tutti
insieme a metà percorso, quasi a non disturbare il filo narrativo di
un’indagine necessariamente frammentata ma coerente, che afferma senza
compromessi la legittimità di linguaggi espressivi e istanze concettuali
solitamente marginalizzate.
Rischia di far inorridire i puristi la scelta di
affiancare le statue votive dell’aborigeno australiano Nawurapu Wunungmurra, i tappeti afgani e i quadri
coloratissimi adornati di perline del congolese Chéri Samba al bulldozer d’acciaio
inossidabile di Wim Delwoye, proveniente dall’Hermitage, e all’impressionante
monolite di cera e vaselina di Anish Kapoor, arrivato direttamente dal Mak di
Vienna.
Ma non è al compiacimento dei colleghi che sembra puntare
Martin; il suo interlocutore dichiarato, in questa mostra, è l’appassionato
d’arte curioso (e sedentario) a cui è offerta una panoramica globale, ma
nient’affatto globalizzata, sull’arte e sugli artisti di oggi. Una
mostra-illustrazione, dunque, che suo malgrado diventa anche una
mostra-interpretazione, nella sua presa di posizione a favore di modalità
espressive spesso sbrigativamente escluse da ogni ricognizione.
È il caso dei bei disegni su corteccia dell’australiano Djambawa
Marawili, che rimandano
a mondi ancestrali di cui l’artista (sacerdote garante del benessere spirituale
di tre mogli e di duecento clan, nessuno dei quali vive a meno di tre ore da un
negozio o da un distributore di benzina) si dichiara tutore; o degli acrilici
su lino di Doreen Reid Nakamarra, che alle sue composizioni ottiche tricromatiche dedica
il pazientissimo lavoro di allineare uno dietro l’altro miriadi di puntini, per
restituirci la suggestione dei paesaggi del deserto dell’Australia centrale.
C’è posto anche per l’arte ispirata (rappresentata dalla
bella biblia pauperum della mistica del suo popolo raccontata per disegni da Frédèric
Bruly Bouabré,
ivoriano diventato artista in seguito a una visione) e per quella che, pur
essendo frutto di un disagio mentale, sorprende per coerenza stilistica (ben
esemplificata da Alexander Lobanov, sordomuto chiuso in ospedale psichiatrico per 50 dei
suoi 70 anni, coi suoi disegni di palazzi staliniani sormontati da mulini a
vento e con autoritratti incorniciati come francobolli in un groviglio di
stilemi del comunismo e affiancati a quelli di Stalin e Lenin, tutti in posa
con il fucile). È nel racconto di queste vite e di queste storie che sta gran
parte del fascino di questa Biennale.
Storie di “vite altre”, come quelle dei catadores brasiliani, raccontate
magistralmente nei Pictures of Garbage del brasiliano Vik Muniz, che ritrae come novello Atlante
un raccoglitore di materiali di recupero e gli fa trasportare sulla testa un
riuscitissimo collage di immondizia, fotografata nella più grande discarica del
mondo. O quella raccontata solo a parole dalla video-proiezione di Alfredo
Jaar
su Kevin
Carter, il fotoreporter sudafricano suicidatosi poco dopo aver vinto il
Pulitzer grazie alla foto di una bambina sudanese moribonda e aver subito il
pubblico biasimo per aver documentato invece di soccorrerla.
Fra le installazioni più riuscite, meritano almeno una
menzione i venti cassonetti di ferro arrugginito in cui il russo Alexander
Brodsky (artista
a torto ancora ignorato dalle nostre cronache, nonostante la sua partecipazione
alla Biennale di Architettura del 2006) cestina l’utopia di una città ideale;
le tredici sedie a rotelle dei cinesi Sun Yuan & Peng Yu, su cui i manichini
iperrealistici di vecchi generali, leader religiosi e uomini d’affari di varie
nazionalità, ormai chiusi in un ospizio, si muovono incessantemente, senza mai
comunicare tra loro; la processione di animali (veri) impagliati, vestiti con
pellicce (finte), del russo Dmitry Tsvetkov, dedicata agli eccessi degli animalisti
occidentali; e – sempre in tema di animali – il Cosmopolitan Chicken Project del belga Koen Vanmechelen, metafora della manipolazione
genetica e della globalizzazione attuata nel tentativo lungo e ostinato di
ottenere – attraverso una serie infinita di incroci trans-generazionali che
durano già da undici anni – la gallina “superbastard”.
Valgono, infine, almeno la fatica di una ricerca su Google
Images il lavoro sui migranti dell’esule coreana Kimsooja, quello del giapponese classe ’72
Chiharu Shiota
sul silenzio dell’arte, quello denso d’impegno politico della lussemburghese Gloria
Friedmann (che
accosta tre dipinti di tre pittori tanto famosi quanto poco dotati, ovvero
Hitler, Eisenhower e Churchill). E, ancora, le parodie della guerra come infotainment di successo dell’australiana Fiona
Hall, gli
impressionanti disegni a scotch di Valery Koshlyakov, gli acrilici su tela di Pavel
Pepperstein, la
cui arte sta volutamente in bilico tra Malevich e la matrioska, le sedute
psicoterapiche proposte agli spettatori dagli svizzeri Gerda Steiner &
Jorg Lenzlinger e
le pagine del blog di Ai Wei Wei, censurate in Cina.
Un poetico scooter usato per il contrabbando di petrolio
dalla Nigeria al Benin ed esposto come simbolo della lotta contro l’ingiustizia
e la sopraffazione ha valso invece a Romuald Hazoumé il conferimento del più inusuale
premio d’arte del mondo, ideato dall’artista concettuale Yury Albert: in palio un funerale pagato
dagli organizzatori della Biennale. Ma solo a patto che l’artista muoia nel giro
di due anni, prima della prossima kermesse moscovita.
aspetti dunque che questa Biennale tracci le linee di demarcazione tra nuove
grandi correnti artistiche o che imponga la tirannia di un tema alla libertà di
ricerca degli artisti. È chiaro Jean-Hubert Martin nell’indicare le linee-guida
della sua Biennale moscovita, che non è un’enorme collettiva consacrata al tema
della lotta all’esclusione con un radicato fondamento politico e sociale, come
il titolo Against Exclusion faceva pensare.
A non essere esclusa dalla sua attenta ricognizione e
dall’ampia selezione è soprattutto la molteplicità eterogenea del fare arte nel
nostro tempo: negli 8500 metri quadrati del Garage (il centro di cultura
contemporanea aperto lo scorso anno da Dasha Zhukova, nota alle cronache
soprattutto come fidanzata del magnate Abramovich), artisti provenienti da
angoli remoti del pianeta, spesso del tutto all’oscuro dell’esistenza stessa di
un mercato dell’arte, e giovani la cui biografia non va oltre le tre righe balzano
in primo piano accanto ai protagonisti dello star-system, confinati tutti
insieme a metà percorso, quasi a non disturbare il filo narrativo di
un’indagine necessariamente frammentata ma coerente, che afferma senza
compromessi la legittimità di linguaggi espressivi e istanze concettuali
solitamente marginalizzate.
Rischia di far inorridire i puristi la scelta di
affiancare le statue votive dell’aborigeno australiano Nawurapu Wunungmurra, i tappeti afgani e i quadri
coloratissimi adornati di perline del congolese Chéri Samba al bulldozer d’acciaio
inossidabile di Wim Delwoye, proveniente dall’Hermitage, e all’impressionante
monolite di cera e vaselina di Anish Kapoor, arrivato direttamente dal Mak di
Vienna.
Ma non è al compiacimento dei colleghi che sembra puntare
Martin; il suo interlocutore dichiarato, in questa mostra, è l’appassionato
d’arte curioso (e sedentario) a cui è offerta una panoramica globale, ma
nient’affatto globalizzata, sull’arte e sugli artisti di oggi. Una
mostra-illustrazione, dunque, che suo malgrado diventa anche una
mostra-interpretazione, nella sua presa di posizione a favore di modalità
espressive spesso sbrigativamente escluse da ogni ricognizione.
È il caso dei bei disegni su corteccia dell’australiano Djambawa
Marawili, che rimandano
a mondi ancestrali di cui l’artista (sacerdote garante del benessere spirituale
di tre mogli e di duecento clan, nessuno dei quali vive a meno di tre ore da un
negozio o da un distributore di benzina) si dichiara tutore; o degli acrilici
su lino di Doreen Reid Nakamarra, che alle sue composizioni ottiche tricromatiche dedica
il pazientissimo lavoro di allineare uno dietro l’altro miriadi di puntini, per
restituirci la suggestione dei paesaggi del deserto dell’Australia centrale.
C’è posto anche per l’arte ispirata (rappresentata dalla
bella biblia pauperum della mistica del suo popolo raccontata per disegni da Frédèric
Bruly Bouabré,
ivoriano diventato artista in seguito a una visione) e per quella che, pur
essendo frutto di un disagio mentale, sorprende per coerenza stilistica (ben
esemplificata da Alexander Lobanov, sordomuto chiuso in ospedale psichiatrico per 50 dei
suoi 70 anni, coi suoi disegni di palazzi staliniani sormontati da mulini a
vento e con autoritratti incorniciati come francobolli in un groviglio di
stilemi del comunismo e affiancati a quelli di Stalin e Lenin, tutti in posa
con il fucile). È nel racconto di queste vite e di queste storie che sta gran
parte del fascino di questa Biennale.
Storie di “vite altre”, come quelle dei catadores brasiliani, raccontate
magistralmente nei Pictures of Garbage del brasiliano Vik Muniz, che ritrae come novello Atlante
un raccoglitore di materiali di recupero e gli fa trasportare sulla testa un
riuscitissimo collage di immondizia, fotografata nella più grande discarica del
mondo. O quella raccontata solo a parole dalla video-proiezione di Alfredo
Jaar
su Kevin
Carter, il fotoreporter sudafricano suicidatosi poco dopo aver vinto il
Pulitzer grazie alla foto di una bambina sudanese moribonda e aver subito il
pubblico biasimo per aver documentato invece di soccorrerla.
Fra le installazioni più riuscite, meritano almeno una
menzione i venti cassonetti di ferro arrugginito in cui il russo Alexander
Brodsky (artista
a torto ancora ignorato dalle nostre cronache, nonostante la sua partecipazione
alla Biennale di Architettura del 2006) cestina l’utopia di una città ideale;
le tredici sedie a rotelle dei cinesi Sun Yuan & Peng Yu, su cui i manichini
iperrealistici di vecchi generali, leader religiosi e uomini d’affari di varie
nazionalità, ormai chiusi in un ospizio, si muovono incessantemente, senza mai
comunicare tra loro; la processione di animali (veri) impagliati, vestiti con
pellicce (finte), del russo Dmitry Tsvetkov, dedicata agli eccessi degli animalisti
occidentali; e – sempre in tema di animali – il Cosmopolitan Chicken Project del belga Koen Vanmechelen, metafora della manipolazione
genetica e della globalizzazione attuata nel tentativo lungo e ostinato di
ottenere – attraverso una serie infinita di incroci trans-generazionali che
durano già da undici anni – la gallina “superbastard”.
Valgono, infine, almeno la fatica di una ricerca su Google
Images il lavoro sui migranti dell’esule coreana Kimsooja, quello del giapponese classe ’72
Chiharu Shiota
sul silenzio dell’arte, quello denso d’impegno politico della lussemburghese Gloria
Friedmann (che
accosta tre dipinti di tre pittori tanto famosi quanto poco dotati, ovvero
Hitler, Eisenhower e Churchill). E, ancora, le parodie della guerra come infotainment di successo dell’australiana Fiona
Hall, gli
impressionanti disegni a scotch di Valery Koshlyakov, gli acrilici su tela di Pavel
Pepperstein, la
cui arte sta volutamente in bilico tra Malevich e la matrioska, le sedute
psicoterapiche proposte agli spettatori dagli svizzeri Gerda Steiner &
Jorg Lenzlinger e
le pagine del blog di Ai Wei Wei, censurate in Cina.
Un poetico scooter usato per il contrabbando di petrolio
dalla Nigeria al Benin ed esposto come simbolo della lotta contro l’ingiustizia
e la sopraffazione ha valso invece a Romuald Hazoumé il conferimento del più inusuale
premio d’arte del mondo, ideato dall’artista concettuale Yury Albert: in palio un funerale pagato
dagli organizzatori della Biennale. Ma solo a patto che l’artista muoia nel giro
di due anni, prima della prossima kermesse moscovita.
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La
Russia alla Biennale di Venezia
consuelo de gara
mostra visitata il 24 settembre 2009
dal 24 settembre al 25 ottobre
2009
3rd Moscow Biennale of
Contemporary Art – Against Exclusion
a cura di Jean-Hubert Martin
The Garage Centre of
Contemporary Culture
Info: www.3rd.moscowbiennale.ru
[exibart]
viva l’italia, dov’è l’italia?? Secondo me veniamo visti come copie degli originali per una certa esterofilia che serpeggia tra artisti,curatoi e operatori. Per non parlare degli operatori e delle istituzioni che non fanno nulla sulla scena internazionale nascondendosi dietro gli interessi di provincia e l’alibi dell’italia sgarupata. Oggi romania e lituania fanno di più per il sostegno e la qualità della loro arte. Quà ci crogiuoliamo nei soliti giochini di potere prevedibile e sterili. Borsa di studio a rivoli, operetta nell’atrio del maxi…avanti così. C’è snobbimso ingiustificato e chiusura degli operatori, questo in definitiva mortifica e disincentiva anche la qualità possibile.
la biennale è lottizzata dalla scena internazionale. L’italia è in una bolla di vetro.
scusate ma qual’è il problema? c’è scritto che hanno invitato le star e gli sconosciuti, cosa volete di più? Evidentemente le gallerie con cui lavora Luca Rossi non sono in grado di farlo diventare una star e nemmeno di lasciarlo puro come un contadino russo.
E’ vero, l’Italia in mostra è assente. Anzi no: sapete chi è l’unico main sponsor della Biennale moscovita? L’italianissima Enel. Che oltre a questa manifestazione, in città sostiene e finanzia il Teatro Bolshoi, il MMOMA (Moscow Museum of Modern Art) e il Festival of Russian Culture. “E’ una conferma del nostro impegno a comportarci da buoni cittadini responsabili nei Paesi in cui operiamo” ha spiegato a mezzo comunicato stampa Dominique Fache, il Country Manager Enel per la Russia. Nessuna sorpresa, se si pensa che in Russia Enel ha interessi da capogiro: possiede il 55,8% della OGK-5” (con 4 impianti termoelettrici che producono 8.200 MW), il 49,5% della RusEnergoSbyt (fornitore di elettricità per le principali utenze industriali), e – in consorzio con ENI – il 100% di SeverEnergia, a cui fa capo un gruppo di promettenti aziende attive nel settore del gas.