Accanto a Picasso, Gris, Braque e Delauny, Fernand Léger si colloca senza dubbio tra i più autorevoli interpreti del Cubismo , secondo una linea di ricerca originale però, del tutto autonoma, e lontana dalle speculazioni teoriche e dai sottili intellettualismi dei primi. Passando anch’egli per l’insegnamento di Cézanne, Léger sperimenta un progressivo processo di scomposizione delle forme che lo porta a rinnegare e a distruggere i propri precedenti paesaggi impressionistici, per individuare quindi nel cilindro la propria cifra stilistica più autentica, e ribattezzare così col nome di tubismo la propria particolare adesione alle ragioni del cubismo più ortodosso . Si tratta di una conquista stilistica lenta, sofferta al vaglio di più ipotesi formali e nella suggestione del confronto, non sempre sereno, con le più aggiornate soluzioni delle avanguardie europee, dall’astrattismo al futurismo, dal surrealismo alla metafisica, al dada.
Brigitte Hedel Samson, direttrice del Musée National Fernand Léger di Biot e curatrice della mostra alla Fondazione Miró, nel ricostruire i passaggi attraverso cui è maturata la produzione del maestro francese, individua negli anni compresi tra il 1905 ed il 1917 il periodo di più fresca e aperta sperimentazione stilistica in cui l’artista, sotto la nozione di “contrasto”, struttura poeticamente linee, forme e colori in sintesi di grande raffinatezza e sicura qualità compositiva: Contraste de formes (1913), Paysage (1914), Composition. Le disque(1918).
L’interesse per la complessità ingegnerestica della strutturazione formale del dipinto (sempre più evidente del resto, nelle tele a ridosso degli anni Venti), il recupero sempre più convinto del disegno come base
Seguono dunque gli anni dell’adesione al Purismo e alla rivista L’Esprit Noveau: l’esigenza di un nuovo rigore formale ispira il ricorso a colori più neutri campiti piattamente, al grigio, al bianco, al nero come linea netta di demarcazione; s’impone l’utilizzo del primo piano, del frammento, di tutte quelle nuove conquiste espressive derivategli dal linguaggio cinematografico. Non più solo gli oggetti, ma ora anche le figure umane, robotizzate ed inserite in uno spazio abbagliato dal vitalismo della nuova metropoli, acquistano dignità monumentale e si accampano con fiducia nel reale. Ed è in uno spazio reale, quotidiano, che si estende per tutti gli anni ‘30 l’opera di Léger impegnato, spesso in collaborazione con Le Corbusier, in decorazioni su vasta scala di padiglioni o palazzi istituzionali, come nella Esposizione Internazionale di Parigi del ’37.
E si arriva così agli anni ’40, al trasferimento negli Stati Uniti, alla scelta di una tavolozza esplosiva, alla frequentazione di nuovi soggetti – le ragazze in bicicletta, i nuotatori, gli acrobati – tutti cicli figurativi nati dall’esperienza dell’osservazione diretta e interpretati nella gioia e nello slancio del nuovo mondo. Il 1946 è l’anno del ritorno in patria, il ’50 del definitivo trasferimento a Biot, il ’55 della morte: anni comunque intensi e generosi di opere di grande ispirazione, La Grande Parade, I costruttori , anni in cui non viene mai meno la fiducia di Léger in un futuro socialista e democratico – al ’45 risale l’iscrizione del pittore al partito comunista francese – rappresentato di là da qualsiasi tronfia enfasi retorica o dai modi celebrativi del realismo socialista, o da semplicistiche esegesi illustrative, nobilitato piuttosto dalla coerenza dell’impegno di una vita e da un umana sensibilità che, fattasi arte, ne ha raccolto limiti ed ambizioni.
davide lacagnina
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