L’arte ai
tempi della crisi. “
Change” sembra il motto di questa mostra newyorchese, il cui
nodo è il tema della trasformazione.
Una
matassa che i curatori dipanano affrontandola sotto più punti di vista e stati
emozionali. Intendendola, infatti, come semplice mutamento, ma anche come
metamorfosi, passaggio, lavorio intellettuale,
détournement. Con amore o cinismo. Ottimismo o
rassegnazione. Come evoluzione o digressione, a partire dallo stesso spazio
ospite, in questo caso il Caledonia di Chelsea.
Non a
caso,
No longer empty – definizione che titola il percorso, ma anche l’organizzazione non
profit promotrice del progetto, itinerante e in più tappe – si svolge, non
senza una dose d’intraprendenza, in spazi riattati e al momento sgomberi;
disponibili, pronti per essere affittati a una nuova attività. Sintesi di come
l’arte possa, nelle maniere più disparate, incontrare la realtà, purtroppo oggi
caricata a incertezze, e farsi portatrice di un messaggio vitale, zeppo di
energie nuove, indicando una strada dinamica anche laddove la crisi ha sparato
le cartucce più temibili.
Gli
artisti chiamati a confrontarsi, nel corso del secondo round del progetto, con
questo argomento sensibile e oneroso, sono testimoni della molteplicità di
sguardi. Risolve con l’usuale candore concettuale
Yoko Ono. Un riquadro delimitato da una
semplice intelaiatura ortogonale diventa il luogo deputato alla trasformazione.
È più che altro uno spazio mentale tradotto in forma fisica, e lo spettatore,
rilevando uno o più biglietti “da visita” dalla mensola attigua, può
portarsi a casa un promemoria per proseguire nell’esercizio, anche nell’ambito
della propria, intellettuale intimità.
Meno
evanescente il lavoro di
Cao Fei che, con un’attitudine del tutto contemporanea, si
confronta con il tema dell’identità, imputando la trasmigrazione alle nuove
tecnologie. L’anima, infatti, lascia il corpo, andando a possedere una Cao
uguale e contraria, che vive avventure reali e introspettive all’interno della
cornice rischiosa, ma non per questo poco rassicurante, di Second Life.
Susanne
Song ripropone,
in ciò che può sembrare un semplice esercizio di stile, l’estetica minimal. A
guardarlo bene, quello che appare un confortante, seppur sapiente, gioco di
volumi ritagliati nella muratura è un fraintendimento cercato tra pittura e
luce. Il pennello disegna dimensioni che in realtà non esistono, luci radenti
che non incidono. L’illusione si svela guardando le cose da vicino. La distanza
opera la trasformazione.
Siebren Versteeg, invece, risolve l’enigma con il meccanismo della
reiterazione, unita all’interazione. Il computer combina random immagini e
stimoli diversi, creando sullo schermo digitale décollage
poppeggianti. Basta l’intervento
del visitatore, un solo gesto, per remixare la superficie, riecheggiando il
vecchio adagio di Mallarmé: “
Un colpo di dadi non abolirà mai il caso”
.
U-Ram
Choe, infine,
tratteggia – all’interno di un ordigno celibe, dal sapore di residuo bellico –
un’inquietante corrispondenza tra macchina e sistemi biologici. A presagire un
futuro che nelle pagine letterarie del passato era solo fantascienza. Ma che
oggi, sempre più frequentemente, assume i contorni di destino e necessità.