Appena si sente parlare di un’istituzione come la Tate si è spesso testimoni di una generale devozione. Nel corso degli anni, questo storico museo londinese ha dato vita ad importanti iniziative culturali e di tendenza (ad esempio il Turner Prize) che l’hanno resa famosa in tutto il mondo. Come già accaduto per il celeberrimo museo Guggheneim, la Tate si avvale di una serie di sedi distaccate. Ogni mostra in programma, poi, viene preceduta da un consistente battage pubblicitario che trasforma ogni singola esposizione in evento.
È plausibile quindi visitare Days like these con lo spirito di chi si attende di essere stupito, deliziato o quantomeno, incuriosito. In questo caso invece, nonostante alcune eccezioni, ci si trova di fronte ad uno specchietto per allodole. Arrivata alla sua seconda edizione, questa triennale d’arte contemporanea inglese propone i lavori di 23 artisti riuniti senza alcun criterio plausibile, se non quello della nazionalità. La scelta dei curatori viene dettata più dal gusto personale che dall’inappellabile occhio critico. Qualche rara novità ha comunque rischiarato il cupo pronostico.
Varcata la soglia veniamo allietati dalla sempreverde Rachel Whiteread che ha la forza di proiettarci come dentro ad un’immagine di Escher. Rampe di scale inaccessibili si alternano ad assurde prospettive ed inespugnabili vuoti prendono prepotentemente forma, irrompendo nello spazio con egoistica superbia. Straniti da queste surreali entità veniamo poi inaspettatamente ipnotizzati da ZoBop, acclamato lavoro di Jim Lambie (nella foto). Il pavimento di una grande sala espositiva è totalmente ricoperto di nastro adesivo dai colori psichedelici. L’intrigante gioco ottico attrae e disorienta mettendo in dubbio percezione ed equilibrio. Già vista in molti altri frangenti, l’opera ha anche in questo caso un notevole impatto benché inizi a perdere quello smalto tipico delle novità. La pittrice Gillian Carnegie stupisce per il suo Black Square, un magnetico paesaggio notturno che si libera dalla bidimensionalità della tela grazie all’abile, corposa, stesura dell’olio sulla superficie. Le cortecce in primo piano, la vegetazione sullo sfondo, le sfumature dei neri mischiati ai blu e ai verdi scuri interpretano nel profondo il linguaggio della natura. Atmosfere meno poetiche, più vicine alla realtà di chi vive nelle periferie delle grandi metropoli sono ritratte invece nei dipinti di Gorge Shaw. L’impiego di vernici per modellismo conferisce ai soggetti un aspetto straniante, dalle tonalità apocalittiche. Luoghi desolati ed abbandonati che fanno da sfondo a storie di ordinaria delinquenza.
Inevitabilmente questa poco audace triennale risulta essere debole negli allestimenti e nei contenuti. Il minuzioso studio per i particolari della brochure, la cura della zona lounge con divanetti stile anni ’60 e l’intricata dislocazione dei lavori per gli spazi del museo hanno però stimolato l’interesse dei visitatori più delle opere.
chiara longari
mostra visitata il 7 marzo 2003
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