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I pensieri oziosi di un ozioso, Jerome K. Jerome afferma che “
la vanità è l’unica forza motrice dell’umanità”. Non a caso, la rivista “Vanity Fair” prende il nome dal romanzo omonimo di William Makepeace Thackeray (1848), un’impietosa satira dei vizi della società inglese dell’epoca napoleonica. E cos’è più effimero e vano della celebrità? In occasione del novantesimo anniversario della nascita di “Vanity Fair” e del venticiquestimo della sua rinascita, la National Portait Gallery di Londra presenta
Vanity Fair portraits: photographs 1913-2008.
Lanciata a New York nel 1913 dall’editore Condé Nast, “Vanity Fair” diventa da subito un’elegante e intelligente finestra sul mondo dell’alta società. Sospesa nel 1936 durante la Grande Depressione perché troppo costosa, la produzione di “Vanity Fair” rinasce in un’epoca di decadenza ed eccesso come i primi anni ‘80.
Articolata in due sezioni, la prima parte della mostra (
Vintage Vanity Fair (1913-1936)) è dedicata ai primi anni della rivista. Da sempre, personaggi del mondo del cinema, letteratura, musica, arte e scienza hanno fatto la fila pur di essere fotografati da leggende come
Edward Steichen e
Cecil Beaton. Un giovane Albert Einstein ancora fresco del Nobel nel 1923.
Frida Khalo, piccola e determinata accanto a un massiccio
Diego Rivera. E ancora Hemingway, Huxley e molti altri sfilano accanto a musicisti e atleti nello spirito di seriosa ironia che è diventato il marchio di fabbrica della rivista.
Nella seconda parte,
Modern Vanity Fair (1983 to present day), Hollywood finisce inevitabilmente per dominare. Ma lo spirito originale degli anni ‘20 resta immutato. Ed ecco nella stessa sala Margaret Thatcher fotografata
Helmut Newton e i Run DMC di
Jonas Karlsson. Dalla data del rilancio della rivista, nel 1983, “Vanity Fair” crea copertine che fanno notizia. Come quella dei coniugi Reagan che danzano sulle note di Frank Sinatra, ritratti da
Harry Benton nel 1985. E non mancano i rimandi alla storia dell’arte: in
The directors (1996), i guru del mondo del cinema Francis Ford Coppola, Martin Scorsese, George Lucas e Steven Spielberg sembrano uscire da una delle corporazioni di Arti e Mestieri ritratte da
Franz Halls.
Se Steichen era la forza creativa del primo periodo di “Vanity Fair”,
Annie Leibovitz lo è del secondo. Il suo nome è diventato sinonimo di ritratto moderno. Entrambi hanno eternato l’ego di pochi, creando un attimo divino. Lo sguardo misterioso Gloria Swanson attraverso una veletta nera per la lente Steichen. Jack Nicholson in vestaglia di seta, ciabatte e occhiali da sole, in mano una mazza da golf, ritratto dalla Leibovitz. Swanson e Nicholson: due facce della stessa medaglia, le nuove icone del nostro secolo.
Leibovitz ha creato alcuni dei più significativi ritatti di gruppo della nostra epoca. Tra questi, George Bush e
I magnifici sette del suo entourage (tra cui Donald Rumsfeld, Colin Powell e Condoleezza Rice). La foto, realizzata in occasione dell’intervento americano in Afghanistan in risposta all’attacco terroristico a New York, sembra rimandare al set di un film western e trasuda di sottile ironia.
Se Hollywood è la fabbrica dei sogni, allora “Vanity Fair” è il suo biglietto d’ingresso. Il mondo è davvero una fiera delle vanità.