L’interesse per lo spazio architettonico e per le relazioni in cui l’opera e lo spettatore sono immersi ha rappresentato dalla fine degli anni ‘60 una questione cruciale nella ricerca di molti artisti. Dal minimal alla land art, fino alle ricerche degli anni ‘80 e ‘90 in cui la teorizzazione di un’estetica relazionale ha posto in primo piano i rapporti fra opera, fruitore e ambiente.
La ricerca di
Juan Muñoz (Madrid, 1953 – Ibiza, 2001) si è focalizzata sul rapporto spettatore-spazio architettonico attraverso l’utilizzo di dimensioni e prospettive che permettono al fruitore di “incontrare” e immergersi nel lavoro dell’artista. Creando una tensione fra la realtà e l’illusione, e giocando con l’atto di guardare ed essere guardati, l’artista spagnolo indaga la dimensione spaziale che definisce i nostri rapporti con il mondo, creando anonime figure, i
muñecos, dalle dimensioni alterate. Reali e allo stesso tempo inverosimili, che chiacchierano, si specchiano e si dispongono nello spazio dell’arte come se fossero una miniatura dello spazio della vita. Come la tutta la ricerca di Muñoz, questi manichini rimangono sospesi in un continuo gioco tra realtà e finzione, uno spazio
in between.
La mostra è strutturata cronologicamente, iniziando con i lavori risalenti alla metà degli anni ’80. I
balconi in ferro, elementi del paesaggio urbano che fungono da ponte fra la propria intimità e l’ambiente pubblico, rappresentano il punto privilegiato da cui guardare il mondo. Nelle loro dimensioni miniaturizzate, questi balconi sono un invito a osservare lo spazio della quotidianità o, più banalmente, a far parte di questo spazio, a immergervisi totalmente.
A seguire, una serie di installazioni che pongono lo spettatore al centro del proprio discorso, come
The wasteland (1987), che invita il pubblico nello spazio e al contempo, grazie a un’illusione ottica, aumenta la distanza tra lo spettatore e la figura in bronzo seduta su una mensola, destabilizzandone la percezione.
Un’intera sala è dedicata ai
Raincoat Drawings, pitture realizzate con gessetti su tela nera, che mostrano interni di appartamenti in cui “
sembra che stia per accadere qualcosa, ma niente succede o perché siamo arrivati prima o nel momento sbagliato”, come spiegava l’artista.
Si giunge infine a
Many things (1999), uno dei pezzi più famosi e probabilmente più noti, in cui cento figure dai tratti somatici orientali, tutte uguali e vestite allo stesso modo, sembrano conversare nello spazio della galleria.
In questa retrospettiva, il lavoro di Muñoz è presentato al grande pubblico senza regalare troppe emozioni, con un’impronta spiccatamente didattica. Senz’altro esaustiva, la mostra è però priva di un autentico slancio interpretativo.