Paolo Maggis (Milano, 1978; vive a Berlino e Barcellona) è un artista determinato. Consapevole delle proprie potenzialità, ha da subito cercato gli stimoli più idonei al suo temperamento. Dopo varie mostre in Italia, infatti, si è trasferito da Milano a Berlino. Dove il suo stile si è fatto estremo nella personale ricerca espressionista.
Già nei lavori del 2006 era fortemente delineata la tendenza a un uso figurativo e fortemente materico del colore, con grandi dipinti in cui l’uomo è sempre al centro della composizione, gettato sulla tela e che dalla tela si svincola tragicamente. La visione di Maggis è profondamente esistenziale, di forte impatto emotivo; attraverso la sua pittura, anche l’immagine più innocua viene caricata di un valore superiore, spesso escatologico. A volte si tratta di vera denuncia e si trasforma in documento, in un mondo in cui è sempre più forte il silenzio. In
Gerusalemme i corpi sono distesi, fermi, ma nella morte il gesto dell’artista è vivo e nervoso, pieno d’ira.
Un’evoluzione di questa pittura gestuale e istintiva si avverte nei nuovi lavori, inquietanti e colmi di significato, realizzati per il museo di Baden Baden in collaborazione con la Galleria Binz & Kraemer di Colonia. Il titolo di questa sua personale tedesca è
Tohuwabohu, termine ebraico che indica un luogo desolato, deserto, o il caos. Si tratta di una vera propria discesa negli inferi, attraverso ventitre opere allestite in cinque sale, ispirate da documenti storici e da immagini reperite in rete.
La prima sala è semicircolare e caratterizzata da ampi finestroni a cui si alternano sette colonne. I sette volti alle pareti incarnano i rispettivi peccati capitali, le intense pennellate marcano il solco scavato nell’anima condannata. Da questo fulcro parte un viaggio che disorienta, nonostante l’evidente filo conduttore. Dal dipinto della caduta degli angeli passiamo alla raffigurazione di corpi indistinti, piegati, sovrapposti, chiaro riferimento all’ottavo girone di Dante e alle sue bolgie. Di notevole impatto i dipinti ricavati dalle immagini di prigionia in Iraq; cupo, profondamente drammatico come sempre Maggis, che nella tecnica tanto ricorda
Kokoschka, ancora più intenso quando rappresenta l’ignominia della tortura.
E torna alla mente il lucido e dettagliato racconto di Oriana Fallaci in
Un uomo, quando descrive le sevizie del suo amato Alekòs durante la tirannia in Grecia e la resistenza che supera la follia del suo simile. Non mancano in tutta questa gravità alcuni aspetti ironici, quali si possono osservare nella metafora della messa nera rappresentata attraverso le tenebrose figure di donne del sud della Spagna.