Ogni volta che Damien Hirst (1965, Bristol) partecipa ad un evento, in veste d’artista o di curatore, si ha la sensazione che qualsiasi opera, parola, azione e scelta curatoriale sia in un qualche modo riconducibile ai suoi gloriosi anni d’inizio carriera. Alla Londra anni Novanta e all’ormai mitica ascesa dei Young British Artists.
Questo effetto dejavu, di cui l’artista è abile regista ma spesso anche vittima, non può che riemergere in tutta la sua evidenza ora che si presenta alla Serpentine Gallery nei panni di collezionista. La sua Murderme Collection, come qualsiasi altra collezione, infatti, altro non è che un’accumulazione di lavori, stratificata nel tempo. Quindi, come ammette lo stesso Hirst, una sorta di “mappa” della propria vita.
Iniziata alla fine degli anni Ottanta, ricorrendo ad un semplice scambio di opere tra amici artisti, e poi proseguita con l’acquisto di lavori di valore sempre maggiore, rivela l’evoluzione del gusto e degli interessi personali dell’artista. E proprio in questo dovrebbe risiedere il maggior punto di interesse dell’evento.
L’esposizione In the darkest hour there may be light presenta una selezione di oltre sessanta lavori. Ecco così alcuni vecchi compagni di viaggio di Hirst, come Marcus Harvey, Angus Fairhurst, Sarah Lucas (di cui é il maggiore collezionista), Tracey Emin, Gavin Turk e Angela Bulloch. Ma troviamo anche opere affini agli aspetti più cruenti della sua poetica, come ad esempio la scultura The incomplete story of unknown discoverys (1998) di John Isaacs. Una riproduzione a dimensioni reali di tre grossi tranci di carne d’elefante, adagiati su pozzanghere di finto sangue, dai quali emergono un occhio, un grosso padiglione auricolare e altri particolari anatomici. Oppure i teschi umani decorati a mosaico di Steven Gregory e Stripped instinct (2005) di Michael Joo, la riproduzione di una zebra a cui sono state letteralmente asportate le strisce nere, in modo da rivelarne la sottostante massa muscolare.
Compaiono inoltre artisti ad inizi carriera come Rachel Howard, Nicholas Lumb e Tom Ormond, cui si affiancano le presenze altisonanti di un dipinto di Francis Bacon, tratto dal celebre ciclo della crocifissione, due serigrafie su tela di Andy Warhol, di cui una appartenente alla serie delle sedie elettriche, le aspirapolveri in vetrina di Jeff Koons e una mensola con oggetti di Haim Steinbach.
E, ancora, diverse opere di Jim Lambie, Richard Prince, Banksy, Don Brown, Laurence Owen, un dipinto di John Currin e Mechanic (2006) di Tim Lewis, una scatola contenente una proiezione tridimensionale di omini che, come criceti, corrono all’interno di una ruota, facendola girare. All’esterno della sede espositiva sono state distribuite sul prato sculture di Sarah Lucas, Angus Fairhurst e Sean Landers.
Alla domanda “quale sia il filo conduttore di questa mostra” l’artista dà una risposta nel comunicato stampa. La Murderme Collection non si é evoluta seguendo un piano prestabilito, ma é il frutto di un’istintuale pulsione ad accumulare oggetti, quella sorta di reificazione-appagamento dei propri desideri di cui ogni consumatore fa l’esperienza. Ne scaturisce così un’esposizione di opere non inedite, tranne qualche rarissima eccezione, che si limitano a dichiarare la loro solipsistica esistenza e tra le quali a volte è arduo trovare delle relazioni. Una tendenza dopotutto comune a moltissime collezioni.
L’artista ha inoltre dichiarato al Guardian che i musei sono sempre stati per lui dei luoghi per artisti morti, ma che adesso sente il bisogno di sistemare la sua intera collezione in una sede stabile per renderla permanentemente visibile al pubblico, e a tale scopo ha già acquistato un edificio a Gloucestershire, vicino Bristol.
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*foto in alto: John Currin, Bent Lady, Olio su tela 121.9 x 96.5cm, 2003 Murderme Ltd, London. Courtesy of Sadie Coles HQ, London © 2006 John Currin – Photograph: Andy Keate
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Ah...noto che qualcuno ha visitato prima che andassi. Il fatto strano è che io mi sono divertita al "murderme" collection di D.H., il che non è poco considerando che è una collezione all'insegna della morte. Perché non inserire anche la bara con luce fluorescente della S. Lucas? Ne sarebbe valsa la pena,credo.