A inaugurare ufficialmente l’apertura della Friedrich Christian Flick Collection ci aveva pensato il cancelliere in persona, Gerhard Schröder il 19 settembre scorso, ringraziando il collezionista tedesco per aver messo a disposizione del pubblico ben 2.500 opere.
Dipinti, sculture e installazioni che appartengono ormai alla storia dell’arte contemporanea, nomi che rimbombano, da Picabia a McCarthy, da Rhoades, a Hanson, intere sezioni dedicate a Bruce Nauman, Thomas Schütte, Rodney Graham, passando per Nam June Paik, Martin Kippenberger e Roman Signer, solo per citarne alcuni.
Tutti gli artisti erano già affermati quando il facoltoso collezionista decideva di acquisirne le opere e, a quel punto, comprava in blocco tutto quello che poteva. L’eredità ricevuta dal nonno, Friedrich Flick, l’uomo più ricco della Germania dopo il 1945, grosso produttore di armi filonazista, era senz’altro sufficiente ma non proprio pulita. L’Associazione degli Ebrei in Germania ha più volte polemizzato con i Flick che si sono sempre rifiutati di contribuire al risarcimento delle famiglie degli ebrei costretti ai lavori forzati nelle loro fabbriche, durante la Seconda Guerra Mondiale.
Il nipote del magnate ha respinto le accuse, ritenendo di non dover pagare per gli errori del nonno: ricevuta la sua parte d’eredità ha seguito le proprie inclinazioni e convinzioni, investendo in attività lecite e meritorie, molte a favore dell’arte.
Friedrich Christian Flick ha raccolto negli anni un vero patrimonio, artistico ed economico. Sicuramente l’esposizione all’Hamburger Bahnhof di Berlino, museo d’arte contemporanea istituzionale, non potrà che giovare al valore della collezione.
In cambio, Flick ha pagato il restauro della Rieckhallen, i nuovi spazi collegati all’edificio principale: un intervento architettonico poco coerente e non troppo funzionale ma utile all’ampliamento l’area espositiva. In tutto tredicimila metri quadri, da percorrere seguendo un ipotetico filo conduttore tematico, ideato dal curatore Eugen Blume; peccato che i titoli delle sezioni, per quanto molto evocativi (Creation mith, Partial truth, Big spirits, etc) non delineino in effetti nessun percorso.
Eugen Blume ha intervistato personalmente Friedrich Christian Flick schierandosi subito dalla sua parte: ha assunto una posizione revisionista, insinuando che l’educazione comunista impartita alle scuole dell’Est possa aver influenzato negativamente la fama del collezionista. Non c’è solo l’intenzione di guardare avanti ma addirittura il tentativo di minimizzare i fatti storici, come se si trattasse di una pura competizione tra opposte fazioni. Difendendo le proprie scelte, Blume mette in luce le doti di un collezionista coraggioso e capace, vittima di polemiche ingiuste. L’intervista viene riportata interamente sul giornale distribuito all’ingresso della mostra, insieme a un parziale resoconto del dibattito che ha avuto luogo nei mesi scorsi.
A pagare il prezzo più alto saranno sicuramente i Musei Statali di Berlino, penalizzati dagli esosi investimenti economici riservati alla collezione Flick per i prossimi sette anni.
Ma la spesa vale l’impresa, se si tratta di fare i conti con un passato scomodo: non è tanto una questione “personale” quanto una dichiarazione ufficiale. Il passato non interessa più, quello conta è richiamare l’attenzione di un pubblico ampio, desideroso, a sua volta, di farsi nobilitare dal valore della grande arte.
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