Non lontano dalla Columbia University, dove ha sede la facoltà di arti visive tra le più prestigiose d’America, sorge un museo molto speciale, lo Studio Museum Harlem. Che, come spiega il nome stesso, oltre a possedere una collezione ampissima (oltre 1600 fra pitture, sculture, disegni, stampe, fotografie e installazioni) e a organizzare mostre di varia natura, accoglie e ospita artisti di origini africane in programmi di residenza volti a catalizzare la cultura afro-americana, rispettandone l’originalità e evidenziandone gli aspetti creativi peculiari. Nato nel 1968 all’interno di un loft, si è trasferito nel sito attuale solo nel 1979, quando la New York Bank for Savings ha messo a disposizione uno spazio enorme. Nel 1982, dopo la ristrutturazione, ha riaperto al pubblico con tre piani di sale espositive, spazi per workshop e studi, una biblioteca, un archivio, un magazzino per le opere, un cortile e uno shop.
Nel 2005 il museo ha visto una successiva espansione e un rinnovamento che gli ha regalato l’attuale facciata in vetro, un auditorium, un caffé e uno spazio espositivo addizionale per la collezione permanente. La specificità del luogo e della missione proposta ha stimolato i curatori a coinvolgere attivamente il pubblico della zona con letture, conversazioni, conferenze, concerti e performance.
Dal 2002, il museo invita periodicamente artisti contemporanei provenienti da differenti background a riflettere sulla posizione artistica e storica di Harlem, crocevia di culture ed espressioni autonome, attraverso la creazioni di cartoline che ritraggono elementi caratteristici dalla vita sociale del territorio. Vi si trovano angoli rinomati del quartiere, come l’Apollo Theater, la music hall che dagli anni ‘30 ha visto passare i più grandi jazzisti del mondo, l’Abyssinian Baptist Church, la più vecchia chiesa nera di New York famosa per i gospel domenicali, il Malcolm X Corner alla 125° Strada e l’Hotel Teresa, dove nel 1960 alloggiò Fidel Castro. Esposti all’ingresso del museo e in vendita nel bookstore, questi lavori rappresentano la visione intima e la prospettiva personale da cui gli artisti osservano i luoghi circostanti. Al momento sono esibite quattro cartoline:
Brooke Williams espone
Hands, un mosaico di una quindicina di scatti che ritraggono le differenti sfumature di colore di altrettante mani senza volto, come indicatori eloquenti della personalità e della storia di ognuno;
Valeska Soares fotografa una scritta reperita in una strada, “Available for all social functions”, e la chiama
Calling Card, apprezzandone l’invito alla libertà espressiva e gestuale; in
Junction,
Cheng-Jui Chiang ritrae le scale antincendio di un palazzo in una prospettiva vertiginosa dal basso verso l’alto, giocando con la combinazione ricercata di forme, linee e trama, in una riscoperta della bellezza del quotidiano;
infine, facendo l’eco a
Ed Ruscha Says Goodbye to College Joys del 1967,
João Onofre ne presenta una versione aggiornata in una casa vittoriana del quartiere, denominandola
Untitled (bliss version).
Lasciando ampio spazio a diverse generazioni, il museo predilige le fresche prospettive degli artisti in erba e la collaborazione con scuole e istituti d’arte. È il caso della mostra
Shift in Focus: Expanding The Walls, che ospita i lavori fotografici di una decina di studenti. Il curatore ha invitato i ragazzi a penetrare il ricco archivio di opere del fotografo
James VanDerZee (1886-1983) custodito dal museo, famoso per i suoi ritratti di inizio secolo della classe media nera americana in pose e vesti tipici della borghesia bianca. Il risultato è stato una serie di fotografie in bianco e nero dove l’occhio cosciente dell’autore cattura e vivifica i particolari nascosti del mondo circostante, tra passato e presente. Fra i partecipanti,
Brittney Cartagena propone
Converse-ation (una fila di piedi che indossano Converse All Star),
Corinne L. Thomas ritrae una ragazza su una panchina con uno skateboard sulle ginocchia, in attesa che qualcosa accada, Cheng-Jui Chiang rimane ancora affascinato dall’imponente architettura degli edifici, fotografando la sommità del Teresa Hotel mentre solletica una nuvola.
Al pianterreno del museo è ospitata anche una mostra di architettura,
David Adjaye: Making Public Building, dove sono visibili numerose maquette, disegni e progetti che manifestano un’unione accattivante tra superfici ruvide e levigate, materiali naturali e sintetici, luce e spessore.
Adjaye si è contraddistinto per i suoi edifici a scopo abitativo e per la costante collaborazione con artisti internazionali (nel 2005 ha progettato con
Olafur Eliasson un intervento per la 51esima Biennale di Venezia).
Per il museo, l’architetto ha elaborato anche un programma,
StudioSound, che invita musicisti, produttori e innovatori nel campo musicale a creare composizioni originali ispirate ai lavori esposti.
Infine,
Midnight’s Daydream raccoglie i lavori dei tre artisti in residence 2006-2007: Titus Kaphar, Wardell Milan II e Demetrius Oliver. La mezzanotte è richiamata come un momento in cui due estremi, due forze, l’oggi e il domani, si sfiorano dando origine ai sogni e alla libertà degli spiriti creatori. Per gli artisti questo è l’istante in cui le fantasie e le invenzioni trovano luogo, producendo uno stato semicosciente e sospeso fra la realtà del presente e l’intangibilità del sonno-sogno.
Titus Kaphar muta e ribalta la pittura convenzionale riconfigurando la tela dipinta attraverso il taglio, la cucitura, la sovrapittura fino a trasformare la bidimensionalità originaria in un rigoglio di forme scultoree. In
Conversations between paintings lascia che coppie di quadri instaurino un dialogo muto attraverso sagome ritagliate dall’uno e riportate nell’altro come ironici collage dadaisti.
Wardell Milan II usa ancora il collage ma in chiave pop, giocando con le giustapposizioni d’immagini provenienti da mondi passati, presenti e futuri, e lasciandole convivere sulla stessa superficie nell’istante senza tempo che solo il sogno è in grado di concepire. Nei suoi lavori celebrità e quotidianità, tradizione e kitsch, sacro e profano sono fusi in un’unica caotica dimensione, dove la realtà è solo evocata ma non coincidente.
Demetrius Oliver espone
Almanac, una lunga serie di quadri che da lontano sembrano rappresentare le varie fasi della Luna, da crescente a calante. Ma a uno sguardo ravvicinato ci accorgiamo che non di pianeti si tratta, bensì di sfere dalla superficie specchiante: in ognuna delle quali è catturato un soggetto in prospettiva
fish-eye, non immediatamente riconoscibile. Oliver spinge lo spettatore a interrogarsi non tanto sulle proprie conoscenze, quanto sul modo di relazionarsi al mondo, per vedere con occhio sempre rinnovato la realtà che ci circonda.
Studio Museum appare perciò una piattaforma dinamica e propositiva sull’arte contemporanea, con un taglio critico peculiare quanto è il posto in cui si trova ad agire. La forma dialogica e l’interazione col contesto circostante permette finalmente agli artisti di comunicare con la vita e la società che li circonda.