Comincia con un pizzico di disinvolta oscenità la mostra:
Testa de cazi altro non è se non un piatto in ceramica a decorazione gialla su fondo blu che, affastellando grottescamente quanto esplicitamente un notevole numero dei suddetti, configura nell’insieme una testa umana di profilo. E per chi volesse saperne di più, non c’è che da leggere in senso contrario l’enigmatica scritta sul nastro che corona la figura (
izac ed atset anv essof emoc adravg em omoh ingo).
L’oggetto potrebbe benissimo essere opera di uno spregiudicato
Giuseppe Arcimboldo (Milano, 1527-1593), pittore universalmente noto per le sue nature morte antropomorfe. In realtà, l’impertinente ceramica è attribuita a
Francesco Urbini e fu eseguita nel 1536, data troppo prematura per colui che fece di certe stranezze un genere pittorico sofisticato e colto. Certo è che, fra tardo Rinascimento e manierismo, il grottesco, il mostruoso e, in genere, i
mirabilia furono oggetto di spiccato interesse.
In questo senso,
Leonardo da Vinci è considerato il capostipite di studi sull’estetica del bizzarro, comprendente anche volti grotteschi e caricaturali: nel suo trattato
De Pictura ne descrive e ne illustra le caratteristiche. Per l’appunto la specifica formazione artistica di Arcimboldo è un po’ l’incognita tematizzata in questo evento espositivo, ipotizzando un’influenza leonardesca ma anche un riferimento alle miniature indiane e alle figure fantastiche di
Hieronymus Bosch.
Nato da una famiglia di modesti artisti milanesi, è noto che il giovane Giuseppe si dedicasse a fianco del padre alla pittura di contenuto religioso, disegnando cartoni per arazzi e per vetrate di chiese, occupandosi anche di allestimenti scenografici. Ma nulla che giustifichi la fiducia immediatamente riscossa presso la potente corte dell’imperatore Massimiliano II d’Asburgo quando si trova a Vienna nel 1563. La sua permanenza presso gli Asburgo, durata un quarto di secolo, è ricca di successi, divenendo artista ammirato e apprezzato anche in Europa. Si incaricò pure di regie e scenografie per grandi feste di corte e di stato, disegnò costumi e armature e altro ancora. La mostra, frutto di una collaborazione tra il Musée du Luxembourg di Parigi e il Kunsthistorisches Museum di Vienna, ne illustra tutti gli aspetti, fregiandosi di una particolare suggestione: per la maggior parte delle opere, oggi provenienti da tutto il mondo, questa occasione viennese è un tornare a casa.
La maniera di Arcimboldo di dipingere vegetali appassiona il sovrano;
è uno specialista nel realizzare quadri ambivalenti, che osservati in un senso sembrano vasi con nature morte e capovolti diventano volti caricaturali. Nel capodanno del 1569, Arcimboldo presenta ufficialmente a Massimiliano II otto dipinti raffiguranti delle teste sul cui principio figurativo lavorava da anni: sono le
quattro stagioni e i
quattro elementi della natura (acqua, aria, terra, fuoco). Oltre alla meraviglia delle composizioni, nel simboleggiare l’eterno ritorno delle stagioni e degli elementi vi si legge un raffinato sottinteso di armonia tra microcosmo e macrocosmo, con un conseguente riferimento allegorico alla imperitura grandezza dell’impero asburgico. Quindi, piante, frutti, animali e oggetti inanimati divengono gli strumenti di una fantasia artistica senza precedenti, tanto da guadagnarsi commissioni di opere anche da molti regnanti d’Europa.
Dopo la morte seguirà per Arcimboldo un oblio di oltre tre secoli. Ma all’inizio del Novecento i dadaisti e i surrealisti, riscoprendone la genialità, indicheranno nella sua opera un grande precursore.