Una certa omogeneità di fondo tesse le fila del lavoro dei
quattro finalisti del Turner Prize 2009. Una coerente idea di magnificenza
istituzionale, forse inevitabile in un contesto di tale ufficiale risonanza,
sembra riarrangiare su tonalità
bon ton le intenzioni dei partecipanti. Calcolati e minimi
sono i rischi, enfatizzati gli aspetti di pura natura estetica.
Il ritorno all’ordine dell’arte made in Britain,
alle soglie delle elezioni che
probabilmente vedranno i conservatori vincere al cospetto di Sua Maestà, si
articola nell’opera paradossalmente statica di quattro presunti trasformatori.
Rigoroso anche l’allestimento, candidamente strutturato fra le arcate del piano
nobile della galleria.
Enrico David presenta una bambolesca installazione da vetrina di grande
magazzino,
Abstruction Cardigan (2009), in cui una grafica pubblicitaria di spettacolare
pulizia formale si lascia avvinghiare dal braccio nero della coscienza, suo
malgrado di peluche. Uomini-bomba e uomini-seggiola sono gli alter ego
dell’artista implorante una via d’uscita. Dal rigetto del disordine a una
possibile alternativa. Neppure troppo implicito il messaggio, tuttavia
bloccato.
Roger Hiorns si scompone in tre diversi lavori, per ovvi motivi non
drasticamente instabili come il capolavoro
Seizure (2008), in cui una stamberga
della periferia più nera, riempita fino al collo di solfato di rame, si
trasforma in una grotta delle fate. Per il Prize:
Untitled (2008), un tappeto di polvere
lunare, che altro non è che i resti di un getto aereo, che ricorda la caducità
di tutte le cose. E gli altri due
Untitled (2008 e 2009), rispettivamente in
plastica e acciaio, in cui materia organica cerebrale (bovina) si combina
rispettivamente a ectoplasmi biancastri e sinuosi e a griglie illuministe
d’acciaio. Lavori belli e intelligenti, ma statici e in quanto tali
autonegantesi.
Lucy Skaer è serissima in entrambe le opere sue:
Leviathan Edge (2009) e
Black Alphabet (2008). Il teschio di una balena (
physeter
macrocephalus) è
nascosto nella prima da una struttura/fortezza di pannelli fessurizzati. La
visione è allusa. Ogni punto di vista è un diverso momento di possibilità. Il
processo visivo in quanto tale è investigato, l’oggetto della visione,
decontestualizzato, è mezzo ma non fine. Nella seconda, 26 uccelli di
Brancusi, uno per ogni sua fusione, sono
allineati come bambinetti in gita scolastica di nero carbone. L’allegoria dello
slancio, in fila per cinque, è un muro di domande non risposte. Lavoro di
grande impatto visivo, ma concettualmente sussurrato se messo in relazione al
poderoso investimento di mezzi.
Afferma senza troppi rimpianti che la maggior parte delle
sue pitture è stata distrutta,
Richard Wright. Creatore di apparati effimeri
appositamente pensati per uno e un solo ambiente, e coltissimo rielaboratore di
tecniche e motivi grafici di ogni secolo e cultura, mette in mostra una parete
in foglia d’oro che sembra una tappezzeria barocca francese, controbilanciata
dal rosso pop della sua controfacciata.
Fatto per il presente,
No Title (2009) apre allo stoico dilemma
sul valore dell’opera d’arte e la sua presunta immortalità. Vicino alla
saggezza forte di
Samuel Beckett corrode l’idea di pratica e di virtù e pavonescamente si
lascia ammirare prima che la sera lo colga.
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anche questo turner è termometro di una momento di stasi. Forse di riflessione, forse di vuoto. Ma ovviamente the show must go on. Ecco, forse ci vorrebbe un po' più di coraggio (molto di più)e voglia di divertirsi.