Dexter Dalwood dipinge grandi tele narrative, spesso con
espliciti riferimenti letterari (Burroughs
in Tangeri, 2005), alternando campiture piatte e seducenti (Death of David Kelly, 2008) a collage che porgono un
rispettoso tributo a Richard Hamilton.
Enormi case di bambola disabitate, le tele di Dalwood sono costruite coi simboli
di uno specifico sentimento del tempo e del luogo, come le più intrigate
allegorie manieriste semplificate in rebus d’autore.
Le opere di Angela de la Cruz
sono arti fratturati tenuti insieme da perni nelle giunture (Clutter I, 2003; Deflated IV, 2003). Non per questo si presentano malconci: le
recenti serie di Defleated IV sono
composizioni di tessuti dai colori brillanti e setosi, come hollywoodiani abiti
da sera. Come per Dalwood, la riflessione puramente figurativa non vive
decontestualizzata, ma si costruisce in un codice semantico e nel suo
inevitabile rapporto con il momento storico. Super Clutter XXL (Pink and Brown) del 2010 è un intricato
labirinto di tele raggomitolate, molto tristemente rassomigliante ai sacchi per
il trasporto delle salme militari. Non esiste la pura forma, il quadro è un
contenitore di significati condivisi.
Attraverso la montatura cinematografica di eventi passati, The Otolith Group (Kodwo Eshun Born e Anjalika Sagar Born) offre spunti di lettura sul futuro e sulla
mutazione irreversibile dei canali di comunicazione. Due i lavori in mostra,
colti e non propriamente accessibili da chi reputa l’istantaneità un momento
essenziale dell’apprezzamento estetico: Inner
Time of Television (2010) e Otolith
III (2009). Il primo centrato sui 13 episodi della serie televisiva The Owl’s Legacy (1989) di Chris Marker, riflessione critica sull’antichità classica; il secondo è
un film ispirato alla sceneggiatura irrealizzata di The Alien (1967) di Satyajit
Ray e anima quattro dei suoi personaggi e la loro pirandelliana venuta in
essere.
Susan Philipsz inscena in una candida galleria spoglia una
performance sonora di angelicata suggestione. L’artista da tempo indaga il modo
in cui il suono modella gli spazi e fonde nella sfera pubblica degli ambienti
comuni una dimensione privata, se non intima. Lowlands (2008/2010) è il risultato della delicata sovrapposizione
di tre versioni di un lamento scozzese del Seicento, che canta il saluto di un
marinaio annegato alla sua donna. La voce bellissima dell’artista ne determina
il risultato, incantevole al punto da perdere forse profondità.
Nonostante la rara scortesia del personale in servizio, si deve alla Tate
l’egregio lavoro delle curatrici Helen Little
e Katharine Stout, meritevoli di
aver dato allestimenti livellanti a lavori radicalmente diversi, senza per
questo limitarne le specificità.
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dal 5 ottobre 2010 al 3 gennaio
2011
Turner Prize 2010
Tate Britain
Millbank – SW1P 4RG London
Orario: tutti i giorni ore 10-18 (ultimo ingresso ore 17.15); fino alle 22 il
primo venerdì del mese
Ingresso: £ 10
Info: tel. +44 02078878888; visiting.britain@tate.org.uk; www.tate.org.uk
[exibart]
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"L’istantaneità come momento essenziale dell’apprezzamento estetico" sembra provenire dal lato più profondo della pazienza umana.
Gli Otolith Groip sono colti in quanto indagano la specificità del mezzo audiovisivo dai suoi presupposti teorici; sono colti in quanto i loro maestri, Chris marker in primis, svelano delle ombre nell'"istantaneità" dell'immagine in movimento; sono colti in quanto difficilmente vengono analizzati su canali come questo, che richiedono una velocità di apprendimento superiore da parte di critici poco pazienti.
Rimando una seconda visita all'opera, magari con qualche dvd in più al proprio fianco...
Susan Philipsz è l’unica che mi piace, anche se poi sorge sempre la domanda sul senso visivo del suo lavoro, per i The Otolith Group troppo documentaristica la cosa, anche qui di bello poco, interessante molto ma è arte visitiva?
Visiva sono sicuramente i quadri di Dexter Dalwood, ma non mi piacciono per nulla, meglio Angela de la Cruz con assemblaggi cromatici e fisici più piacevoli, anche se alquanto banalotti.
Sempre alla Tate Britan ci sono “Harrier e Jaguar” di Fiona Banner nella Duveen Galleries, troppo forti!