Non ha immagini di documentazione né comunicato stampa – e come potrebbe? – il primo intervento di Tino Sehgal all’ICA: la mostra è parte di una iniziativa a lungo termine che prevede lo sviluppo di tre progetti affidati all’artista, per un periodo di ben tre anni, dal 2005 al 2007.
L’artista londinese, che ha studiato economia e danza in Germania e che attualmente vive e lavora a Berlino, approda in galleria attraverso interventi effimeri, sfuggenti, in continua trasformazione. Mettendo apparentemente alla prova la rigida struttura museale, le tradizionali forme della produzione artistica e il sistema economico dell’arte, le operazioni di Sehgal, muovendosi negli interstizi tra coreografia e performance, utilizzano gestualità e parola per realizzare azioni a cui soggetti diversi – visitatori, passanti, personale addetto, assoluti estranei – sono invitati a partecipare.
Tali operazioni richiamano posizioni critiche radicali di artisti “storici” dell’area concettuale – Klein, per esempio – ai quali tuttavia Sehgal fa riferimento come attingendo da un archivio di forme, piuttosto che di contenuti. L’approccio dell’artista, pertanto, induce meglio ad una lettura aperta, leggera ed ironica, la cui vena critica è impregnata più di pragmatismo che non di polemico impegno.
Nelle Lower Galleries dell’ICA, contro il profilo puro delle pareti vuote e degli spettatori seduti sul pavimento, un attore ripercorre nell’ “hic et nunc” una serie di movimenti già osservati in alcuni video di Bruce Nauman e Dan Graham. Instead of allowing some things to rise up to your face, dancing bruce and dan and other things, opera del 2000, dall’inusuale lunghissimo titolo, oscilla così tra la celebrazione dei maestri e la ripetizione vuota di gesti da collezione.
Nelle Upper Galleries, invece, un lavoro recente, This objective of that object, esclude ed insieme invoca la partecipazione del visitatore. Cinque personaggi interpretano la dinamica complessa di una “conversazione”, interrompendo la loro corale recitazione tragicomica (“The objective of this work is to become the object of a discussion … we have a comment … we will answer …”) e trasformando uno spunto – gesto o parola – colto a caso da uno dei visitatori, in motivo di scambio di opinioni. Volgendo ostinatamente le spalle al pubblico – ma anche in conseguenza della disposizione delle sale – la conversazione sembra serrare la gente in una gabbia; di fatto invece, in questo incessante sforzo, si crea una interessante e dinamica “coreografia” agita proprio dallo spettatore. A conclusione dello scambio di opinioni, poi, la presenza del coro rituale iniziale sembra venire reinstaurata; ma il giocoso saltellare ed emettere versi gutturali dei cinque personaggi lascia anche insinuare nella performance un ironico senso di caos, suggerendo una sorta di ambivalente schizofrenia in questo “invito alla comunicazione”.
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