25 marzo 2005

fino al 3.IV.2005 Jota Castro Parigi, Palais de Tokyo

 
Per il vernissage si inventa la serata col più alto tasso di ospiti di colore mai visto in un museo europeo. Poi ricostruisce una cella del carcere di Guantanamo. Jota Castro continua la sua ricerca sospesa tra arte, politica e indagine sociale. Provocando con lucidità e leggerezza…

di

In una recente intervista con Jérôme Sans, Jota Castro, alla tradizionale domanda sul ruolo dell’artista oggi, risponde con una definizione incisiva, eloquente, senza fronzoli: “l’artista è uno che non ha tempo da perdere. Uno che sente che la sua epoca ha bisogno di ‘interpreti’. Un artista non fa altro che esplorare nuove forme di comunicazione, senza nulla concedere all’ideologia o alla morale dominante”.
Castro, che non ha mai frequentato scuole d’arte (“servono solo a sfornare cloni”), ha una formazione da giurista, ha studiato diritto e scienze politiche e lavorato per le Nazioni Unite e la Comunità Europea.
Ed è tutta calata nell’attualità la sua ricerca, rivolta alle dinamiche politico-sociali che regolano comportamenti e condizioni delle comunità contemporanee. Per questa nuova personale parigina al Palais de Tokyo, Castro mette in scena un teatro di denuncia e insieme di memorie private, un paesaggio scandito da zone di emergenza, territori di confine, provocazioni poetiche o politiche mai troppo eclatanti, sostenute da una evidenza semplice, una attitudine sovversiva sommessa. Discrimination Day è il titolo del vernissage-performance, azione-riflessione sul tema del razzismo in forma di sfida-gioco-ribaltamento. Scopo della serata: stabilire il record mondiale di persone di colore presenti in un’istituzione d’arte contemporanea europea. Il bianco ricco e integrato finisce col sentirsi uno straniero in casa propria, una mosca bianca, appunto.
jota castro A mi tiempo 2005
Diverse installazioni poi, alcune inedite, tutte recentissime. Guantanamo prende spunto dal problema dei diritti umani: è l’ossatura metallica di una piccola gattabuia, senza pareti, e in alto, appesa, una lampada a infrarossi che genera un calore insopportabile; il volume corrisponde a quello di una cella del carcere di Guamntanamo, dove la temperatura raggiunge i 40 gradi. Tutto intorno, fuori dalla piccola gabbia, decine di cappi penzolano dal soffitto, un riferimento al bellissimo brano Strange Fruit di Lawis Allan, e un discreto memento mori per tutte le vittime cadute in nome dei propri desideri, della libertà, delle differenze. Con Breaking Icons l’artista si confronta con i suoi miti personali, rappresentazione dell’autorità mai del tutto deposta. Tappezza le pareti di fotografie delle sue icone immortali, ritratti in bianco e nero dietro un vetro, personaggi celebri di ogni sorta; le increspature dei vetri spaccati regolano i conti con la figura simbolica del “genitore-titano”, rendendogli omaggio e insieme sopprimendolo, freudianamente. Su un’altra parete campeggia, a caratteri cubitali, A mi tiempo, poesia o preghiera profana in cui ogni verso è scritto in una lingua differente. Brains è un intrico di strutture metalliche mobili, come una rete tridimensionale fatta a snodi e passaggi da attraversare. Una metafora del cervello durante una terapia psicanalitica e insieme la rappresentazione simbolica dei limiti, le frontiere, gli ostacoli che occorre imparare a dribblare per liberare un pensiero creativo e responsabile. E se per il Discrimination Day i bianchi erano gli intrusi in minoranza, nella saletta buia Libertè Egalitè Fraternitè sono solo i neri ad entrare: tre pannelli luminosi – come insegne pubblicitarie o arredo da night club – riproducono lo slogan della rivoluzione francese, svuotato di senso, depotenziato, ridotto a sfavillante spot. Spettacolo per pochi intimi, testimoni di una cinica boutade.

helga marsala


Jota Castro – Exposition Universelle 1
Parigi, Palais de Tokyo – 13, avenue du Président Wilson
orari: dal martedì alla domenica, h. 12.00/00.00
info : tel +331 4723 5401 e +331 4723 3886
info@palaisdetokyo.com
www.palaisdetokyo.com


[exibart]

2 Commenti

  1. L’alibi dei contenuti per le solite banalissime realizzazioni.
    Si vede di meglio in certe “performance”,
    improvvisate dai partecipanti
    in qualche manifestazione di piazza
    ( e anche quelle sono fatte spesso da gente che non ha fatto studi d’arte)
    I cloni non crescono solo nelle scuole d’arte!

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