Chi guarda alla storia delle immagini dell’Italia del 1900-1950, scoprirà una parabola articolata da due forze in tensione: un anelito alla modernità attraverso il rigetto di un passato percepito come una zavorra priva di senso, e dall’altro un riemergere costante di quello stesso passato, che in sordina plasma e influenza il divenire delle forme artistiche.
Un piccolo Sacre Coeur sulla cima di una butte simile ad un arazzo di colori, treni, locomotive, carrozze dallo sgargiante dinamismo; una fabbrica vista dall’alto mentre, immersa in un’atmosfera neoimpressionista, si volge alla sera; ed infine una mano che scivola su un violino lasciando la traccia di ogni movimento sulla tela. Una chronophotogafia alla Marey si direbbe.
I tre casi, un Severini, un Boccioni e un Balla, evocano la musa francese di questa avventura tutta italiana. È a Parigi infatti che i tre artisti elaborano un linguaggio nuovo attraverso le esperienze del simbolismo, del divisionismo, del cubismo e grazie all’impulso della “caffeina d’Europa”, il poeta Marinetti. Non è un caso che il Manifesto del Futurismo sia pubblicato su Le Figaro e in lingua francese. E non è un caso che una mostra che racconta l’Italia al pubblico parigino sottolinei il peso di tale contatto.
La donna al caffè di Umberto Boccioni richiama analogie con il repertorio francese: donne alienate, sedute al tavolo davanti ad un bicchiere nel quale annegare le proprie frustrazioni. Al contempo la rappresentazione della simultaneità spazio-temporale, le ombre e i colori che si compenetrano, evocano un dinamismo sovreccitato, proprio della moderna ricerca futurista. Questo linguaggio traduce una volontà di vita dell’opera d’arte che
Il dialogo con la tradizione classica inaugurato dalla breve stagione metafisica, è proseguito nel primo dopoguerra da Severini, Carrà e Casorati, i quali attraverso le forme dei primitivi toscani elaborano una nuova estetica cui è consacrata una ampia sezione della mostra. Protagonista indiscussa, La Silvana Cenni di Felice Casorati con la sua posa ieratica, da regina, il drappo inamidato, la finestra che da su un edificio quattrocentesco. Eppure il suo sguardo rivolto verso il basso sembra comunicare un assenza di vita, come se lei stessa fosse cosciente della natura fittizia delle atmosfere in cui è stata collocata, una sorta di rifugio per anime tormentate. Questa angoscia profonda diventa più esplicita negli sguardi imploranti dei modelli di Casorati degli anni Trenta, come nel Beethoven, in cui le forme e i colori compatti e geometrizzanti hanno oramai definitivamente raffrenato lo slancio vitale futurista. Inevitabile leggere in quegli sguardi, dagli anni Venti e Trenta, un appello, una richiesta d’aiuto, ancora un tentativo, stavolta esasperato, di indurre una reazione nello spettatore perché, commosso dall’intensità tragica di quegli occhi, soccorra quei personaggi immobilizzati nella stasi imperturbabile della forma. Così la splendida Allieva di Sironi, medita racchiusa in un involucro di incomunicabilità; il toccante Uomo con la palla rossa fissa l’oggetto in un dialogo solitario e indecifrabile.
Sono immagini che comunicano silenzi che non riescono o non possono più esprimersi a causa di un blocco, di una soffocante censura intellettuale. Anche la forma allora non ha più senso e si disfa, come stanca di se stessa, diventa molle come le braccia e le gambe prive di gravità della Famiglia del Pastore di Mario Sironi. Esausta, sembra voler cessare di esistere, spezza i legami con il mondo materiale, rinuncia ad una comunicabilità accessibile. La parabola si conclude con Fontana, Burri, e Manzoni. La tela che si ustiona, si ritrae, tace. Non rimane che il fondo bianco di un racconto giunto alla sua ultima pagina.
stefania tullio cataldo
mostra visitata il 4 aprile 2006
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